Chiusi:  calorosi applausi e occhi umidi hanno gratificato lo spettacolo “Dov’è finito lo zio Coso” andato in scena al Teatro Mascagni per il “Giorno della Memoria”

Di Francesca Andruzzi

Tra le numerose rappresentazioni teatrali dedicate alla Giornata della Memoria, “Dov’è finito lo zio Coso”, sceneggiatura e regia di Manfredi Rutelli, interpretato magistralmente da Gianni Poliziani e Alessandro Waldergan, tratto dal romanzo “Lo zio Cosodi Alessandro Scwhed, è uno di quelli da non perdere. E anche se ben due rappresentazioni si sono già svolte per il pubblico chiancianese e per quello chiusino, oggi pomeriggio (alle 17,00) si replica al Teatro Comunale di Piancastagnaio. La bravura del regista e degli interpreti è nota e non abbisogna di ulteriori commenti, se non la menzione sul lungo e caloroso applauso che ieri ha gratificato l’immenso lavoro svolto da questi artisti sul palco del Teatro Mascagni. L’applauso si fa con le mani, e anche questa è cosa nota, ma gli occhi, che dell’anima sono lo specchio, gli occhi di chi ha potuto assistere ad uno spettacolo di eccezione, al riaccendersi delle luci in sala, erano umidi, segno di una commozione intensa, non solo per la gravità di quanto accaduto nel cuore dell’Europa, ma anche per il singolare messaggio che questo spettacolo ha lanciato sui presenti come una sassaiola. Se Giornata della Memoria è e deve essere, la Memoria va custodita, perché fragile, facilmente attaccabile (come hanno dimostrato gli intensi protagonisti) da ragionamenti senza né capo né coda, ma che possono giungere a risultare inimmaginabilmente convincenti, pur nella loro schizofrenia. Fino a far dubitare Melik (il bravissimo Alessandro Waldergan) non solo sul reale accadimento della seconda guerra mondiale, delle deportazioni e delle stragi di massa di ebrei, rom, omosessuali, dissidenti, ma, financo, della propria esistenza, al punto di arrivare a confondere il vero e proprio plagio cui lo sottopone il dottor Oscar Rugyo (l’intenso Gianni Poliziani, ancor più bravo per aver interpretato un personaggio lontano un universo e oltre dalla sua personalità) con gli effetti di un presumibile trauma cranico causato da una altrettanto ipotetica caduta dal treno, o ciuff ciuff, come lo chiama Melik, il quale, in seguito al plagio/trauma, non riesce più a ricordare i nomi delle cose e nemmeno quello dello zio, che diviene “lo zio Coso”, proprio mentre si accinge ad andare a trovare il congiunto, per riscoprire le proprie radici. Ecco, dunque, cosa si rischia nella ricerca delle proprie origini, nella ricerca di mantenere viva la testimonianza “di fatti che quando diventano solo ricordi” possono essere facilmente messi in dubbio da quei molti Rugyo che, in perfetta mala fede, a mezzo di argomentazioni incredibili, ma suggestive, tentano di minare la coscienza di coloro i quali non vogliono perdere il legame con la Storia, riuscendo pure a rendersi invisibili.“L’indispensabile esercizio della memoria”, come definisce il regista Rutelli il senso primo del suo spettacolo, vive proprio di quella luce che si chiama Storia e nonostante ci possa essere sempre un dott. Rugyo, che quella luce tenta di spegnere, sta a noi, a ognuno di noi, credere nella Storia, quella documentata, narrata dai protagonisti della Storia stessa e non lasciarci obnubilare da affabulatori inconsistenti, cui soltanto noi possiamo dare consistenza, accedendo alle assurde tesi negazioniste.Al di là della perfetta tecnica artistica di cui è pregno questo spettacolo – per la cui realizzazione un posto importante rivestono anche le musiche originali di Paolo Scatena e l’assistenza all’allestimento di Simone Beco – il merito maggiore di tutti gli Artisti risiede nel messaggio che essi hanno comunicato a chi ha avuto la fortuna di assistere a “Dov’è finito lo zio Coso”. Un messaggio crudo, forte, privo di ipocrisia, sulla grande e gravosa responsabilità di una società civile che, oltre al resto, ha atteso sessant’anni (la prima Giornata della Memoria data 2005) prima di cristallizzare la Shoah, lasciando – come purtroppo ancora accade per le altre e numerose stragi perpetrate da una umanità che, a volte, di umano sembra avere ben poco – di essere preda di un negazionismo assurdo, purtroppo spesso convincente, piaga pari, se non ancora più vile, delle stragi stesse. Come Melik – sembra voler dire Manfredi Rutelli – riaccendiamo la luce per combattere chi ci vuole al buio, poiché, afferma lo stesso regista, citando San Paolo, “tutto ciò che viene esposto alla luce diventa luce”.