Il personaggio del mese di febbraio 2022: Raffaella Bonsignori avvocato, giornalista, scrittrice, drammaturga, nata a Roma, ma legata alle sue origini senesi tanto da sentirsi figlia di entrambe le “Lupe”. “Nonostante lavori su più fronti- racconta- trascorro molto tempo immersa nei miei studi e nelle mie letture e trovo stimolante dedicarmi a lavori manuali come cucinare, ricamare, lavorare a maglia, lavorare il legno. Il lavoro manuale è una bacchetta magica che libera la mente dal superfluo. Alcune delle mie migliori idee letterarie mi sono venute durante tali attività”

 di Leonardo Mattioli

 

Come in un contrappasso, per il mese di febbraio, il più breve dell’anno, desideravo un personaggio che riempisse il vuoto lasciato da quella manciata di giorni la cui assenza sembra accorciare la nostra vita. Un personaggio che fosse in grado di donare ai lettori la gratificazione di sapere che la giornata può essere fatta di quarantotto ore. La scelta, dunque, non poteva che cadere su Raffaella Bonsignori, avvocato, giornalista, scrittrice, drammaturga, nata a Roma, ma legata alle sue origini senesi tanto da sentirsi figlia di entrambe le “Lupe”. Scopriremo insieme il personaggio, ma, ciò che più conta, la persona. Raffaella Bonsignori, oltre alle sue capacità, alla sua vasta cultura, al coraggio, possiede quella dote che sta diventando rara in coloro i quali molti talenti hanno ricevuto: l’umanità, che è come una calamita. Raffaella Bonsignori vi attirerà a sé, vi incuriosirà e arricchirà in riflessione e ricerca. In questa intervista troverete solo una parte della grandezza della Bonsignori che, sono certo, sarà di stimolo alla lettura dei suoi scritti. Fermarsi qui, alle poche domande che le ho rivolto e alle interessanti risposte che ha fornito, ma perdere l’occasione di leggere i libri che ha scritto, sarebbe come arrestarsi all’idea di un febbraio intenso ma breve, senza pensare che è proprio questo il mese dell’anno che sacrifica parte di sé, al fine di permettere alla primavera di giungere a noi il prima possibile.     

 

D.: Iniziamo dalla leggenda. Senio e Ascanio, figli di Remo, gemello di Romolo, fuggono da Roma e si dirigono a nord, ove fondano Siena e Asciano, portando con loro il simbolo della Lupa capitolina che diverrà Lupa senese. Le fortificazioni, che Senio erige su tre colli, per difendersi dallo zio che voleva ucciderlo, daranno vita proprio alla città del Palio. E lei che è nata a Roma, con il cognome “Bonsignori”, testimonianza delle sue origini senesi, di quale “Lupa” si sente maggiormente figlia? 

 

R.: Pur amando moltissimo Roma e le tradizioni romane, ho, sin da bambina, un inspiegabile accento toscano che si amplifica non appena attraverso i confini del Granducato. Forse quando l’anima parla il linguaggio dei ricordi più antichi usa il dialetto! Devo dire che amo moltissimo Siena. Ogni volta che ci vado, mi sento a casa. E seguo il Palio con interesse, parteggiando per la contrada cui appartiene il palazzo Buonsignori, oggi pinacoteca pubblica, ossia la contrada dell’Aquila.  La mia famiglia, infatti, appartiene ad un ramo collaterale della nobile casata di Orlando Buonsignori, fondatore della Gran Tavola, la prima importante banca d’epoca medievale; una casata poi unitasi ai Salimbeni. Con il tempo una parte della famiglia si diresse a sud, stabilendosi sia a Roma e dintorni, sia in Sicilia. Anche il cognome si modificò: con l’influenza dialettale dei nuovi luoghi di elezione, divenne Bonsignori, e, in alcuni casi, Bonsignore.  I Bonsignori di Roma avevano fiorenti attività commerciali e svariate importanti proprietà nel rione Campo Marzio. Nel Quattrocento, però, divennero partigiani dei Colonna contro papa Sisto IV della Rovere, e ingaggiarono una battaglia che non si sarebbe dovuta fare. Se c’è una cosa che la Storia ci ha insegnato è che difficilmente il papato soccombe, a prescindere dalle ragioni e dai torti che hanno determinato il conflitto. E così fu anche in questo caso. Le punizioni fioccarono, prima fra tutte la confisca e la distruzione dei beni. Le famiglie più potenti si salvarono comunque. Succede sempre. I Bonsignori, invece, si ritrovarono in breve tempo defraudati di ogni cosa e finì così la loro presenza tra le casate romane di spicco. Le lontane origini familiari mi hanno sempre affascinata e con i miei cugini Armando, Isabella e Maria Letizia stiamo pensando di scrivere un libro sulla famiglia. Sarà una buona occasione per soggiornare qualche tempo in quel di Siena, respirando la sua aria frizzante di toscanità discreta. Difficile davvero scegliere una delle due Lupe. Roma è la mia città, ma anche Siena. La sua vita si riflette con delicatezza nei colori che l’avvolgono: il verde delle colline circostanti, il rosso aranciato, profondo e bello, della terra di Siena, pregno di suggestioni solari smorzate nel crepuscolo. E profumano di vita autentica, quei luoghi, di valori antichi. A Siena, come in tutta la magnifica Toscana, le tradizioni non si limitano a sopravvivere, come usualmente si dice, ma fanno parte della quotidianità. A volte si viaggia nel Tempo. E i senesi sono come la loro città: hanno una memoria antica che è sempre presente ed uno sguardo al futuro; sono garbati, ma anche taglienti; sono assolutamente se stessi. È una terra di mistici e di poeti. Dante li definì vani e S. Bernardino pazzi dal sangue dolce. Adoro questa definizione; rende i senesi degli eterni fanciulli. Uno dei soprannomi che mi sono stati dati, nella vita, è Matto, al maschile, perché origina da una delle maschere più intriganti del teatro shakespeariano: dice sempre quello che pensa, privo di timore reverenziale; capisce gli altri e le cose del mondo più di quanto si pensi, vede la vita a modo suo … Forse, oltre a Shakespeare, nel mio soprannome c’è un po’ di Siena.

 

D.: Siena non è solo paesaggio e non è solo persone; è anche arte. E che arte! Lei è un’appassionata, se non erro.

 

R.: Sì, amo molto l’arte e Siena ne è manifesto. Spesso viene identificata con Il Campo, con la Torre del Mangia, con il Duomo o il Palazzo Pubblico, ma Siena è anche nella Chigiana, è nella Loggia della Mercanzia, nel palazzo Tolomei … Ogni strada, ogni vicolo respira Storia e Arte. Persino il Monte dei Paschi di Siena ha sede in un magnifico palazzo, quasi una fortezza, quello dei Salimbeni, che collega la banca di oggi alla Gran Tavola del mio avo. E, poi, c’è l’inarrivabile scuola pittorica locale. Ho sempre avuto il vezzo di dare del tu ai personaggi storici e agli artisti che amo in modo speciale. Durante il liceo presi il coraggio di farlo pubblicamente, in classe. Le insegnanti tollerarono di buon grado questa mia eccentricità. Ebbene, uno degli artisti cui ho sempre dato del tu è Simone Martini. La raffinatezza delle sue figure, dei colori illuminati dall’oro, quella ritrosia da nobildonna che manifesta Maria nella sua Annunciazione sono di impareggiabile bellezza e raccontano la storia eterna della città. A proposito di Simone, ricordo un episodio buffo: un giorno la scuola organizzò una gita a Siena proprio per andare ad ammirare la sua Maestà. Io, purtroppo, mi buscai l’influenza e non potei partire. Le mie amiche, ovviamente, mi mandarono una cartolina – la conservo ancora – sulla quale scrissero: «Simone ci ha chiesto di salutarti», cosa che mi procurò l’ingelosita reazione del mio primo adolescenziale fidanzatino.

 

D.: Studi classici, poi la laurea in Giurisprudenza. Avvocato, giornalista, scrittrice, drammaturga. Lavora in questi ambiti da molti anni e con successo. A quale non potrebbe rinunciare?

 

R.: L’Arte credo sia irrinunciabile. È qualcosa che si ha dentro. I mestieri, le professioni fanno parte del bagaglio del fare, per quanto mi riguarda; solo l’Arte tocca quello dell’essere. Scrivere è il mio unico modo di esprimermi, mettendo a nudo l’anima, scavando nelle profondità di me stessa e del mondo di persone e di cose che mi circonda. L’ho sempre fatto. Ho da poco ritrovato un diario dei primi anni delle elementari. Imparai a leggere e scrivere con mio nonno e i miei genitori ancor prima di andare a scuola e, rileggendo quelle pagine, mi ha meravigliato l’ottimo stile, sia nella prosa, sia nella poesia, e il livello di approfondimento di alcuni concetti. Avevo sei anni quando, proprio in merito alla mia passione per la scrittura, ho buttato giù queste parole: «Quando scrivo i miei pensieri diventano vivi e mi portano in altri mondi. Mi piace viaggiare con loro. Invento tante storie. Con la mia penna posso andare ovunque senza muovermi dalla mia cameretta. E soprattutto posso diventare chiunque. Una vita è poca se puoi viverne tante». Ero una piccola, inquietante bimbetta saggia con l’arte nella penna. Peccato che mi sia persa per strada, crescendo! C’è da dire, comunque, che non mi sono mai allontanata troppo dal seminato. Anche fare l’avvocato richiede spesso abilità nello scrivere e, soprattutto, nell’approfondire un tema, sviscerandolo in ogni suo aspetto, in tutte le sue verità, cosa utilissima nell’impostazione di una storia narrata, che sia romanzo, racconto, saggio o testo teatrale. Pirandello sarebbe stato un fantastico avvocato: avrebbe insinuato il legittimo dubbio in più di un giudice. Ecco, credo che, oltre ai preziosi insegnamenti di mio nonno paterno e dei miei genitori, io debba ai miei studi giuridici e, soprattutto, al mio maestro Franco Cordero, la capacità, ancorché mediocre e in perenne via di miglioramento, di vedere la realtà nelle sue molteplici sfaccettature, di usare un approccio critico di fronte a qualunque fatto, di non credere a verità spacciate per assolute e di cercare sempre di disvelare le ragioni dei soccombenti, dei derelitti, degli accusati dalla Storia.

 

D.: Partiamo allora dalla professione di avvocato, tra le tante libere professioni colpite dalla crisi economica, aggravatasi nel periodo pandemico. Molti suoi colleghi hanno abbandonato la toga proprio negli ultimi due anni. Cosa o chi la determina a resistere e quali, a suo parere, potrebbero essere le soluzioni per una rinascita della categoria forense, così importante per la salvaguardia dei diritti del cittadino?

 

R.: È un momento molto difficile. La pandemia ha dato il colpo di grazia ad una professione che la politica sta mettendo a dura prova da anni. Forse la mattanza dei liberi professionisti è una delle poche costanti nel passaggio da un governo all’altro. Pensiamo già solo alla pressione fiscale e previdenziale esercitata a prescindere dai guadagni effettivi, anche a fronte di fatturati che di poco superano la somma richiesta. In pratica, per gli avvocati vige la presunzione di evasione fiscale. Io so di giovani colleghi che pagano i contributi di Cassa Forense con la pensione dei nonni o con l’aiuto dei genitori. E sappiamo bene che non possono esimersi dal pagare, perché, al contrario di quanto avviene per i giornalisti, non si può esercitare la professione se non si è iscritti alla Cassa. La risposta che spesso si ottiene dalle Istituzioni, a fronte di tali lamentele, è «Se non guadagni, vuol dire che non fai l’avvocato seriamente. Quindi cancellati dall’Albo». La nostra società soppesa la serietà professionale come fosse un sacchetto di monete. Quel pro bono che negli Stati Uniti è virtuoso esercizio della professione, da noi diventa invito a rinunciare ad un titolo conquistato con esame di Stato, a rinunciare ad un titolo che potrebbe portare un incremento di lavoro pagato in futuro. Non credo possa dirsi civile un Paese che costringe il lavoratore a contrarre debiti o a chiedere aiuti per poter esercitare la professione. La contribuzione, anche la minima, dovrebbe essere modulata in base all’effettivo percepimento dei soldi, senza presunzione di evasione fiscale, e, tra l’altro, sarebbe auspicabile che si rendesse facoltativa, quanto meno per coloro che si iscrivono all’Albo dopo una certa età, la scelta di affidarsi alternativamente ad un’assicurazione privata, che consentirebbe la capitalizzazione dei versamenti.  Quanto al motivo per cui ancora svolgo la professione forense, credo sia uno solo: il ruolo di garante di giustizia che ogni avvocato riveste. Sono un’idealista e mi piace il pensiero di poter fare la differenza per qualcuno. Qualche giorno fa i giornali hanno dato la triste notizia della scomparsa di Silvia Tortora, figlia del noto giornalista e conduttore televisivo, e ciò ha riportato sotto i riflettori il clamoroso errore giudiziario che lo vide protagonista. Egli fu vittima di un sistema giudiziario orbo e incauto. Il suo nome fece scalpore e i giornali sguazzarono nella notizia, sorvolando sul fatto che per Tortora, come per i suoi famigliari, non era una notizia, ma era la vita. Ecco, gli avvocati sono spesso l’unico veicolo di giustizia che hanno le vittime del sistema.

 

D.: Lasciamo Raffaella Bonsignori avvocato e andiamo dalla giornalista. Lei collabora con QuartaPareteRoma, giornale web che si occupa di cultura, in particolare di teatro. Le sue recensioni, relative agli spettacoli in scena nella Capitale, invogliano il lettore più che a recarsi… a correre in teatro. Anche quando uno spettacolo non la convince del tutto, sembra lasciare al potenziale fruitore la possibilità di accertare personalmente quanto la sua critica corrisponda a realtà, rinunciando, dunque, come alcuni suoi colleghi, a quelle “stroncature” senza appello. Per lei vale, dunque, il motto de gustibus non est disputandum o il motivo è un altro?

 

R.: Innanzi tutto grazie per l’apprezzamento e per aver compreso il mio atteggiamento nei confronti della critica. Sempre per quelle molteplici verità di cui parlavo prima, quelle che non smetto mai di notare, non posso pensare che il mio giudizio sia necessariamente definitivo. Cerco di vedere uno spettacolo a tutto tondo, analizzando la scena, la musica, la regia, l’interpretazione; da scrittrice dedico molta attenzione anche al testo e, ove possibile, lo leggo sempre prima di andare a vedere lo spettacolo. È un qualcosa che mi insegnò mio nonno quando iniziai ad andare a teatro. Avevo sei anni. Ciò non toglie che la mia lettura possa non collimare con quella di altri critici o del pubblico. Non credo ci siano cose assolutamente giuste e cose assolutamente sbagliate in uno spettacolo. Ci sono percezioni, aiutate da uno sguardo più o meno tecnico. L’unica certezza è che il teatro deve essere vissuto e, dunque, non scriverò mai una recensione che allontani il pubblico dal teatro e dall’opportunità di farsi la propria idea su uno spettacolo. Credo che, negli ultimi tempi, sia fortemente frainteso il termine critica: fare il critico non significa criticare, ma fornire una lettura critica, ossia una valutazione, un’indagine volta a formulare un giudizio che non deve mai porsi come il giudizio. Amo gli articoli indeterminativi, in questo campo. Spero di riuscire sempre ad offrire parole non definitive.

 

 

D.: Restiamo a teatro, ma stavolta non da spettatori. Lei scrive testi teatrali e il suo “Giuda” ha conosciuto un notevole successo di critica e di pubblico quando è stato portato in scena da un superbo Maximilian Nisi. Un’opera intensa, anche per il personaggio decisamente controverso, e per la capacità che ha avuto di descrivere ben tre volti di Giuda, in tre finali diversi. Tre, il numero perfetto, il numero della Trinità; come si lega a chi, secondo la tradizione, tradì l’Uomo, il Figlio di Dio?

 

R.: Giuda è un personaggio che mi ha sempre affascinato, non solo leggendo i Vangeli, ma anche studiando, a scuola, La Gloria di Giuseppe Berto. Durante un’intervista a Maximilian Nisi, nel 2018, nacque l’idea di portare Giuda a teatro e il modo migliore mi è sembrato quello di dargli voce dall’aldilà in cui si trova. È una mia prerogativa quella di prediligere storie di confine. I miei personaggi si trovano sempre su una linea tra Vita e Morte, tra Bene e Male, tra Luce e Oscurità, tra Sonno e Veglia …  La storia dei tre finali è presto detta. Dapprima il testo prevedeva due personaggi, Giuda e Ombra, un suo alter ego; poi Maximilian ha chiesto di poter leggere anche una versione monologata e ho lavorato ad un testo alternativo. Ho scritto più di un finale. Alla fine ne ho conservati due. Maximilian ha operato i tagli ritenuti opportuni per la scena, anche per evitare che fosse troppo lungo, e ha scelto un finale tra quelli che io avevo scartato, inserendo, come frase conclusiva, quella di uno dei due finali da me scelti. Nasce, così, il terzo finale ed il testo, acquistabile su Amazon, contiene sia la versione non tagliata, sia il finale alternativo, sia la versione di scena con il terzo finale. Scrivere per il teatro è un perenne divenire. Certo, il tre è anche il numero della Trinità ed è particolare che, alla fine, siano proprio tre i finali prescelti. Del resto, il mio Giuda è un uomo che ha partecipato al disegno divino; è in contatto con la Trinità, benché viva una punizione eterna nella quale, forse, la Trinità entra poco. Nel mio modo di vedere le cose, l’anima è la sede dell’Inconscio.

 

D.: Quando ha visto il suo “Giuda” prendere vita sul palcoscenico, quali emozioni ha provato?

 

R.: Un intero arcobaleno di sensazioni: eccitazione, divertimento, paura, sollievo e un prezioso, inestimabile apprendimento, perché sono stata catapultata in un mondo sconosciuto, quello del dietro le quinte, e ho imparato tantissimo. Maximilian Nisi è un professionista serio, infaticabile e molto capace, in grado di trasmettere arte con grande generosità. Non è da tutti. Ho assistito alle prove, alla creazione delle musiche da parte del bravissimo Maestro Stefano De Meo, al trucco, alle decisioni registiche e attoriali; ho collaborato al reperimento e al montaggio di oggetti di scena. Ho imparato che in teatro tutti sono sulla stessa barca e lavorano insieme in un concerto di bravure e di competenze semplicemente sublime.  E, poi, è stato un battesimo del palcoscenico davvero importante: la prima nazionale si è tenuta al teatro Gassman di Borgio Verezzi, nel corso del prestigioso Festival del Teatro diretto da Stefano Delfino. Una delle sedi più autorevoli. La sera della prima mi sono seduta sul fondo, defilata. Quando Maximilian, alla fine dello spettacolo, ha menzionato il Maestro Stefano De Meo e la sottoscritta a stento mi ha individuata, ma devo dire che mi ha fatto un dono preziosissimo: mi sono alzata in piedi per prendere il mio primo applauso e ancora ho i brividi nel raccontarlo. L’anno seguente, ossia la scorsa estate, è arrivato il premio della Camera di Commercio della Regione Liguria e sono addirittura salita sul palcoscenico accanto a Maximilian per ricevere una targa sulla quale campeggia una motivazione lusinghiera: profondità dei contenuti ed alto livello dell’interpretazione. Anche questa è stata un’esperienza indimenticabile.

 

D.: Come primo passo nella drammaturgia non c’è male!

 

R.: Sono stata molto fortunata e illuminata dal Cielo.

 

D.: Chi la guarda dal Cielo?

 

R.: Mio padre, che è parte di me in ogni istante della mia vita, e mio nonno Renato, il papà di papà. Sono i miei due angeli custodi.

 

D.: Non è un mistero la datata e profonda amicizia che la lega anche a un altro bravissimo attore, formatosi nel laboratorio di Proietti e che tanto ha dato, e darà ancora, al teatro. Parliamo di Gianfranco Jannuzzo, che oggi abbiamo scoperto essere anche un bravissimo fotografo grazie alla pubblicazione di “Gente mia” (Ed. Medinova Onlus), una raccolta di scatti in bianco e nero che ritraggono persone comuni incontrate da Jannuzzo nella sua Agrigento. Ha mai pensato di scrivere un testo teatrale per lui?

 

R.: Gianfranco Jannuzzo è un grande attore ed una persona di rara sensibilità. Lo dimostra in ogni sua attività artistica e nei suoi rapporti umani. Il libro fotografico Gente Mia esprime con grande intensità il suo modo di vedere la vita, l’attenzione al particolare, il concentrarsi su una ruga che attraversa il volto di uno sconosciuto e che va oltre il volto, raccontando una storia, rappresentando la memoria dell’esistenza, il senso dell’esperienza, a volte il richiamo della solitudine, sicuramente la saggezza del Tempo. Il suo libro è un capolavoro formato da capolavori e non lo dico in amicizia ma seguendo la mia solita linea di verità, quella del Matto shakespeariano.  Progetti con lui ce ne sono. Ogni tanto ne parliamo. Il progetto di un libro, che vorrebbe raccontare, attraverso l’obiettivo fotografico di Gianfranco e la mia penna, la sua lunga amicizia con Gigi Proietti, prima come discente e, quindi, come collega. E, poi, un’idea teatrale, sì. Ci sto lavorando. Si tratta di un personaggio famoso di origini catanesi. Un grande uomo. Ma serbo segreto il suo nome, per ora … Lo sappiamo solo io e Gianfranco. Entrando nel mondo del teatro ho imparato tante cose, anche a cedere amabilmente ad un pizzico di scaramanzia!

 

D.: Torniamo al giornalismo, per affrontare una questione spinosa. Sappiamo tutti quanto parte della categoria sia stata al centro di polemiche in questi difficili anni di emergenza sanitaria. L’accusa principale è stata quella di aver diffuso timori nella popolazione con una campagna di informazione definita martellante e di non avere mosso critiche a scelte governative rivelatesi, con il tempo, discutibili. Qual è la sua opinione in merito?

 

R.: Quando mi sono iscritta all’Albo dei Giornalisti ho coronato un sogno. Sono orgogliosa di far parte della categoria, ma, proprio per questo, di fronte a tanti casi in cui la stampa sposa acriticamente le notizie ufficiali, soprattutto su un tema così importante, che investe la vita e la salute dei cittadini, resto basita e spiacevolmente impressionata. Mi chiedo che fine abbia fatto il coraggioso giornalismo che ho studiato, quello dei corrispondenti di guerra o delle grandi inchieste. Il giornalismo, nel mio modo di vedere le cose, non deve mai essere di parte; deve farsi tramite tra la gente e la notizia, accertando le fonti e prestando orecchio a tutte le campane; deve mettere in condizione chi legge o chi ascolta di farsi un’opinione critica; deve essere coraggioso e, se occorre, andare contro corrente, cercando quanta più verità possibile.

 

 

D.: Arriviamo a Raffaella Bonsignori scrittrice di saggi e romanzi. Non le nascondo che mi sono innamorato di “Fiume Bojaccia” (Ed. Bibliotheka), la sua opera più famosa, a metà tra saggio e romanzo storico, dedicata ai delitti avvenuti sulle sponde del Tevere, da Eliogabalo ai giorni nostri. Non è soltanto il grande lavoro di ricerca, ma quel suo modo di scrivere accattivante e coinvolgente, quella narrazione viva che emerge dalle pagine di questo libro – da molti definito “un capolavoro” – a fare di lei una autrice di indubbio talento. Può raccontare ai nostri lettori come è nato questo libro e a quale delle sue opere è più legata?

 

R.: Fiume Bojaccia nasce nel 2013, da un invito dell’Associazione Figli della Lupa, di cui faccio parte; un’associazione di fiumaroli, come a Roma vengono definiti coloro che nel fiume svolgono attività lavorative o sportive. Io ne faccio parte perché pratico il canottaggio, oltre ad essere figlia e nipote di fiumaroli nuotatori, che hanno salvato anche qualche vita, in quell’acqua. Nella riunione annuale dei Figli della Lupa c’è sempre un fiumarolo che parla del Tevere nell’ambito della propria sfera di competenza: archeologia, storia, ingegneria, architettura … Ebbene, quando lo chiesero a me, ad un avvocato penalista, venne fuori una storia criminale del Tevere. L’anno seguente lavorai al progetto e nacque il canovaccio del libro; ampliai i casi e mi persi amabilmente nelle ricerche bibliografiche e d’archivio, nel corso delle quali ho, con grande emozione, maneggiato moltissimi documenti antichi. Ho lavorato al libro per due anni, trattando undici casi celebri, dall’antica Roma ad oggi. È stato un lavoro di ricerca molto impegnativo, ma di grande soddisfazione. Ogni capitolo racchiude un caso ed un periodo storico. Ho scelto la disposizione cronologica, ma, in realtà, ognuno può leggerlo seguendo l’ordine che crede. Sono storie a sé stanti; singoli saggi, corredati dalla propria bibliografia. Devo dire che ad ogni saggio collego ricordi peculiari. Il caso Mattei, ad esempio, mi ha consentito di ritrovare una pergamena manoscritta da Marcantonio Colonna nella quale ho trovato la soluzione ad un’annosa disputa storica. Mi sono sentita un po’ come la Biancamaria dannunziana quando mette tra i capelli il pettinino appartenuto a Cassandra.  Sull’opera preferita ho qualche difficoltà a rispondere. Forse, parafrasando Hikmet, direi quella che devo ancora scrivere. Le ho amate tutte, anche i troppo ingenui primi racconti editi da Giuffré, che uscirono senza correzione di bozze e, dunque, con tantissimi refusi e frasi modificate e non rilette. Di Fiume Bojaccia prediligo il caso Borgia. Approfondendo la vita del Valentino, ho stretto con lui quella stessa amicizia provata per pochi altri artisti o personaggi famosi. Ne parlavo poco fa a proposito di Simone Martini. Ancora oggi mi rivolgo a lui chiamandolo semplicemente Cesare e non tollero il fango che la Storia gli ha gettato addosso, dovuto alla parzialità di certi cronisti – a proposito di giornalisti da propaganda -. Di Blue Christmas, invece, amo l’atmosfera. Il Natale è una mia grande passione e, anche in questo caso, la storia che ho costruito è una storia di confine, il confine tra Possibile e Impossibile, tra Realtà e Fantasia.

 

D.: I “Quaderni di critica e Cultura” sono un’altra sua creatura, una Collana nata da quella che sembra essere la sua necessità di coinvolgere gli altri, di attrarli nella sua orbita, anche per valorizzarli. Molti di coloro i quali hanno scritto per i “Quaderni” parlano di lei come persona generosa. E nella vita professionale e artistica, la generosità non è caratteristica comune ai più. È d’accordo con questa definizione? Si sente come la descrivono?

 

R.: Gli autori dei Quaderni sono fin troppo gentili. Non credo di essere generosa. Li ammiro molto, questo sì. Li scelgo sulla base della stima che nutro per loro per quello che hanno scritto e che scrivono, per l’approfondimento che dedicano agli argomenti, per la loro capacità critica, per l’elasticità mentale di fronte alla Storia. Questo non mi rende generosa, ma solo consapevole della bravura altrui.

 

D.: Restiamo sui “Quaderni”, che escono con Amazon Publishing. Grande successo per il volume dedicato alle donne (“La donna, un volto, cento anime”), per quello che ha visto protagonista la Capitale (“Storie di Roma. I tanti volti della Città Eterna”), e ultimo, ma non ultimo, “Viaggi, avventure e imprese quasi impossibili”, nel quale abbiamo potuto leggere il contributo di Marcello Veneziani e la sua intervista a Edwin Aldrin, ma non sono mancati nomi famosi anche per i precedenti. Come nasce l’idea della Collana e quale il bilancio, sia pur parziale, di questa intrapresa?

 

R.: L’idea nasce per contrastare il pressappochismo dilagante che si nota in giro. Il web è infestato da una subcultura pericolosa: articoli scopiazzati da Wikipedia, recensioni che si limitano a raccontare la trama od a riportare quanto scritto nei comunicati stampa, notizie falsate dall’attuale tendenza propagandistica della politica. Ho voluto creare uno spazio in cui persone di valore potessero esprimersi liberamente, affrontando i temi prescelti con serietà, capacità d’indagine, indipendenza intellettuale, stile accattivante. Ogni libro è dedicato ad un argomento, sviscerato in modo multidisciplinare.  Il volume sulla donna fa ancora parte del mio progetto iniziale, quello di un Dossier legato al giornale su cui ho scritto fino allo scorso anno; ma la testata, pur di pregio, non aveva risorse per portare avanti il progetto, avrei dovuto continuare a fare tutto io e, così, ho scelto di farlo ma sotto l’egida del mio marchio Critica e Cultura. Nell’interazione con gli autori la presenza di un curatore accanto a referenti non operativi crea confusione, incoerenza. Da Storie di Roma, dunque, il Dossier è diventato Quaderno ed è stata ampliata la rosa degli scrittori partecipanti, puntando sulla capacità creativa e sulla specializzazione rispetto all’argomento trattato.  Alla stesura di Storie di Roma hanno partecipato, tra gli altri, anche Gianfranco Jannuzzo, con un bel ricordo di Gigi Proietti corredato da alcune sue foto inedite, mons. Luigi Negri, arcivescovo emerito di Ferrara, con un importante contributo su Pio IX, Alfredo Baldi storico del cinema e noto critico, con un’ interessante descrizione del Centro Sperimentale di Cinematografia; anche l’attore Ugo Pagliai, il quale ha accettato di essere intervistato sul cinquantenario di uno dei più noti e visti sceneggiati tv degli anni Settanta, Il Segno del Comando. Il libro, inoltre, contiene l’ultimo articolo di Gian Piero Galeazzi, recentemente scomparso: un incantevole quadro della Roma fiumarola tra Ottocento e Novecento. Il suo testamento di giornalista e di appassionato di storia romana. Viaggi, avventure e imprese quasi impossibili, invece, ha visto la partecipazione, tra tantissimi autorevoli nomi, di Marcello Veneziani e di Edwin Buzz Aldrin, il quale, nel 1969, scese sulla Luna con Neil Armstrong. Aldrin ha letto la mia lettera di presentazione del progetto e ha accettato entusiasticamente di essere intervistato da me. È stata una grande emozione. In suo onore l’intervista è stata pubblicata sia in italiano, sia in inglese. Dal 2022 i Quaderni avranno cadenza annuale. Il prossimo numero uscirà a novembre.

 

D.: Ormai i nostri lettori hanno compreso le sue doti, la sua poliedricità, la sua valenza in ambito professionale e artistico. Vogliamo svelare loro qualcosa del suo privato? Se le dicessi, ad esempio, famiglia, amicizia, amore, cucina… dalle sue pagine social, oltre ai contenuti culturali, emerge una Raffaella Bonsignori quale figlia premurosa, compagna affettuosa, amica leale, eccellente cuoca. Sembrerebbe proprio che la passione sia la sua parola d’ordine…

 

R.: Sì, passione è uno dei termini che prediligo. La mia vita privata è fatta di piccole cose, di brevi attimi di assoluta perfezione, come mi piace definirli. Sono l’unica difesa nei confronti del sovraccarico di impegni e di problemi quotidiani. Nonostante lavori su più fronti, trascorro molto tempo immersa nei miei studi e nelle mie letture e trovo stimolante dedicarmi a lavori manuali come cucinare, ricamare, lavorare a maglia, lavorare il legno. Il lavoro manuale è una bacchetta magica che libera la mente dal superfluo. Alcune delle mie migliori idee letterarie mi sono venute durante tali attività, ecco perché, quando le pratico, ho sempre accanto un registratore acceso. Mi piace anche giocare, quando posso: giochi di società e di strategia. Il gioco ci aiuta a non perdere quella preziosa parte di noi che si chiama infanzia.  Poi c’è la famiglia. Mia madre è al centro dei miei pensieri e le dedico molto tempo. La pandemia ha colpito duramente anche sotto il profilo psicologico e sembra che i nostri politici e i giornali che ne riportano pedissequamente le dichiarazioni non si rendano conto di quanto il martellamento sulla conta dei morti e dei contagiati, che si sta scoprendo anche alquanto falsata, se non erro, incida negativamente sulle persone più fragili, quelle che, spesso, restano inermi a bere le notizie provenienti dalla televisione. È atroce l’insensibilità e la crudeltà con cui questo tema viene trattato. Nel circondario delle mie conoscenze tantissime persone plurivaccinate hanno contratto il covid anche gravemente. Le notizie ufficiali, però, dicono il contrario, alimentando l’odio sociale nei confronti dei non vaccinati, la spaccatura. In un simile contesto, le persone fragili, soprattutto se anziane, si isolano sempre di più e sempre di più perdono contatto con la realtà.

 

D.: Consuetudine impone che l’ultima domanda sia fantastica e la fantasia certo non le manca. Se avesse la possibilità di incontrare un personaggio del passato, di trascorrere una intera giornata insieme, chi sceglierebbe e come organizzerebbe l’incontro?

 

R.: Risposta difficile. Sono affascinata da molte grandi personalità del passato, ma voglio rispondere sull’onda dell’emotività, guidata dal cuore, e il cuore mi porta nel Rinascimento, verso un fiorentino. Certo, una giornata è poca, ma si può fare. Meglio alzarsi presto, però. Del resto lui è sempre stato mattiniero. L’incontro avverrebbe poco dopo l’alba nei pressi di Santa Croce, perché è la sua zona. Sebbene sia nato fuori Firenze e sia stato tenuto a balia a Settignano, la sua infanzia fiorentina trascorre lì ed è lì che riposa nella luce dell’eternità. Forse passeggerei con lui nei vicoli di Firenze, ricordando i suoi primi passi nell’arte; raggiungeremmo il luogo dove sorgeva la bottega del Ghirlandaio e, poco dopo, via Larga, entrando in quel giardino dove, da giovane scultore, iniziò ad accarezzare il marmo con lo scalpello, guadagnandosi anche un naso rotto a causa dell’invidia di un altro giovane artista. Poi ci recheremmo insieme a Roma. Certo, dovendo viaggiare a cavallo, sarebbe difficile raggiungerla in serata. Peccato, perché gli avrei volentieri preparato una buona cena nella sua casa di Macel de’ Corvi. Ma poco importa. Ci fermeremmo a riposare in una locanda e resterei fino a tarda ora a parlare con lui di arte e di poesia, incantata; gli chiederei della sua vita, dei suoi pensieri, dei suoi amori e la mia anima diventerebbe più grande perché arricchita dall’amicizia di quell’uomo che è noto al mondo come il Divino Buonarroti, ma che io, sempre per il mio irriverente vezzo di diventare amica di personaggi storici e grandi artisti, mi permetto di chiamare semplicemente Michelagnolo.