Il personaggio del mese di maggio 2021: il ‘formatore teatrale’ Alessandro Manzini da Desenzano sul Garda alla terra degli Etruschi fino alla Fondazione Orizzonti di Chiusi. Le tematiche sociali gli sono molte care. Ha curato il progetto “Racconti sostenibili”, in tema di ambiente ed energia; ha diretto la Compagnia teatrale formata da persone disabili; ha curato progetti teatrali rivolti al recupero della memoria storica e delle tradizioni locali, nonché di contrasto al disagio

Di Francesca Andruzzi

Alessandro Manzini insegna teatro in Valdichiana. I suoi laboratori non sono solo per adulti, ma anche per giovani e giovanissimi. La sua esperienza con la Fondazione Orizzonti di Chiusi gli ha fatto scoprire quanto possano essere importanti le origini: nella terra che vide nascere una delle più antiche civiltà, quella degli Etruschi, ha ritrovato nei suoi allievi grazia ed eleganza che la genetica riesce a trasmettere. Il suo impegno, anche in questa interminabile stagione pandemica, non si è fermato. Ma non vogliamo anticipare di più. Nelle risposte di Alessandro Manzini c’è un buon profumo: quella essenza che emana un essere umano oltre la propria fisicità; con le parole di chi ha dedicato una vita al proprio lavoro, egli trasmette una serenità che non ha eguali. Sapere che esistono uomini come Alessandro Manzini rende i nostri giorni, ancora poco luminosi, anche meteorologicamente, sicuramente migliori. Immergetevi in questa intervista e scoprirete perché…

 

D.: Cosa o chi l’ha portata, nel 2008, da Desenzano del Garda a Cetona? E cosa le manca di più della sua terra?

R.: Io e la mia compagna siamo partiti da Desenzano alla ricerca di un nuovo territorio in cui vivere e lavorare. Io avrei voluto andare in Trentino mentre Irene in Sicilia: così abbiamo fatto una media geometrica e ci siamo ritrovati in Centro Italia. La scelta è stata casuale, o forse istintiva: nel giro di pochi giorni abbiamo trovato un casolare ai margini di un bosco a Città della Pieve e ci siamo fermati per 7 anni. Dal lago al bosco: abbiamo creato il teatro dei macchiati, un teatro nel bosco che d’estate si animava di spettacoli notturni, esplorazioni teatrali e laboratori per bambini. Non sento la mancanza della mia terra perché so che potrò sempre tornarci e sarà la mia terra; forse, al momento, ho voglia di esplorarne di nuove, perché ogni terra è ricca di storie e persone da scoprire, ascoltare e raccontare.

 

D.: Laureato in sociologia con una tesi sul teatro nella scuola; notevole la sua esperienza proprio in ambito scolastico. Può spiegare ai nostri lettori, tra i quali molti genitori, in cosa consiste il suo lavoro di ‘formatore teatrale’? E quanto incide l’esperienza del laboratorio teatrale sulla formazione delle nuove generazioni?

 

R.: Lavoro come esperto teatrale soprattutto nelle scuole primarie, dove l’intervento avviene all’interno della classe in orario scolastico: i percorsi sono pensati come supporto all’attività didattica degli insegnanti. Il linguaggio e le tecniche teatrali consentono ai gruppi classe di sperimentare relazioni inedite tra i compagni; le attività mirano a svelare i valori di ogni studente, a sviluppare la capacità di lavorare in gruppo e di esprimere se stessi e le proprie emozioni. Le tecniche teatrali sono lo strumento principe, ma non l’unico, con cui lavoriamo per aiutare i bambini ad affinare le abilità personali e relazionali, le dieci life skills individuate dall’OMS, che li aiuteranno ad essere cittadini attivi e consapevoli.

 

D.: Lei ha portato in scena anche le persone cosiddette ‘disabili’; le dirige nell’ambito di una compagnia di teatro. Cosa le ha dato questa esperienza a livello interiore? E quali sono, secondo lei, fuori dalla configurazione medica, le disabilità che affliggono la nostra società? 

 

R.: Ho lavorato per otto anni a Desenzano con una compagnia che comprendeva attori con sindrome di Down, operatori e volontari. È stata un’esperienza meravigliosa che consiglierei a tutti, in particolare a chi vuole stare su un palcoscenico. Più che veri e propri copioni, avevamo dei canovacci con alcuni snodi drammaturgici da seguire, ma le storie si sviluppavano sul palco, con invenzioni e improvvisazioni che rendevano ogni momento vivo e inaspettato. Il concetto di “diversa abilità” viene criticato come tentativo di indorare la pillola della dis-abilità: talvolta può anche essere vero, ma non a teatro. Gli operatori sociali, che dovevano affrontare il “normale” imbarazzo del palcoscenico, venivano aiutati dai ragazzi disabili che, al contrario, vivevano la scena con naturalezza, con una presenza straordinaria e una grande capacità di stare nel personaggio. Forse il valore più grande del progetto risiedeva nel rapporto con il pubblico: durante gli spettacoli si percepiva che qualcosa accadeva in quel momento tra attori e pubblico; si scioglievano paure, si conosceva e si comprendeva la diversità. Erano piccoli eventi, ma di grande impatto sociale per la comunità. Per quanto riguarda la società odierna, credo che dovremmo rimboccarci le maniche per capire insieme quanto questa pandemia ci stia cambiando e come affrontare tali cambiamenti. Noi cercheremo di fare la nostra parte, ascoltando i bambini e aiutandoli ad affrontare le difficoltà in ambito relazionale ed espressivo.

 

D.: Il suo è un curriculum decisamente corposo ed interessante. Oltre ai laboratori teatrali, ha frequentato anche quelli di lettura teatrale, narrazione, dizione, scrittura drammaturgica, regia… insomma, lei è d’accordo con quanto sosteneva Gigi Proietti e cioè che un artista non può limitarsi alla recitazione sic et simpliciter e, aggiungerei, che la recitazione deve necessariamente nutrirsi di tutte le tecniche e le arti – penso alle sue regie di opere musicali – che rendono completo chi vuole fare teatro?

 

R.: O chi vuol fare l’insegnante, come nel mio caso. Nella nostra piccola esperienza di “macchiati”, negli anni ci siamo occupati di tecnica (luci, musiche), recitazione, regia, scenografia, costumi, ma siamo sempre stati incuriositi anche dal mondo dell’informatica, dalla multimedialità alla programmazione. Credo sia fondamentale mantenere una curiosità nei confronti di tutte le professioni che ruotano attorno al mondo del teatro e dell’insegnamento; non si tratta di presunzione di saper fare tutto, anzi. Più ci si addentra in una materia, più ci si rende conto di non conoscerla a fondo e, di conseguenza, si dà valore ai professionisti che se ne occupano. Si tratta sempre di relazioni, di comprensione reciproca, di capacità di mettersi nei panni degli altri, che è poi ciò che cerchiamo di insegnare ai bambini.

 

D.: Le tematiche sociali le sono molte care. Ha curato il progetto “Racconti sostenibili”, in tema di ambiente ed energia; ha diretto la Compagnia teatrale formata da persone disabili; ha curato progetti teatrali rivolti al recupero della memoria storica e delle tradizioni locali, nonché di contrasto al disagio. Sembra quasi che lei veda nel teatro un mezzo, più che un fine, per parlare della vita. La finzione scenica, perciò, incide sulla nostra realtà?

 

R.: Tra teatro e realtà c’è un intreccio indissolubile e non è mai ben chiaro dove stia la verità. Da un lato abbiamo il teatro: il luogo in cui, per tornare a Proietti, tutto è finto, ma niente è falso; dall’altro la nostra vita quotidiana, in cui siamo chiamati a recitare ruoli diversi a seconda del contesto in cui ci troviamo. Il teatro rappresenta da millenni il linguaggio interpretativo ideale per la trasmissione efficace dei grandi temi: rende attori tutti i partecipanti e consente in un arco di tempo limitato la creazione di una forte tensione emotiva. Ma certamente sì, per come la vedo io è uno strumento per la crescita di una comunità e non un linguaggio fine a se stesso.

 

D.: Lei ha curato, dal 2013 ad oggi, laboratori teatrali per la Fondazione “Orizzonti d’arte” di Chiusi, sia per adulti che per bambini in ambito extrascolastico. Chiusi è terra etrusca per eccellenza e altrettanto noto che gli Etruschi amassero in modo particolare la musica e il teatro, tanto che, narra Tito Livio, attori etruschi vennero chiamati a Roma, nel 364 a.C., nell’ambito di manifestazioni per ingraziarsi le divinità e debellare una pestilenza. Quanto la emoziona insegnare teatro in un luogo che fu culla di una civiltà estremamente “artistica”?

 

R.: Saranno i geni etruschi che riecheggiano nelle cellule dei chiusini, o la volontà della Fondazione Orizzonti, ma in passato non avevo mai trovato un paese in cui si riuscisse a lavorare alla formazione teatrale in modo così strutturato e continuativo. In questi anni, abbiamo accompagnato nella crescita tutti i bambini delle scuole primarie, abbiamo sperimentato corsi per ogni stagione, esperienze all’aperto, spettacoli nel sottopalco, abbiamo fatto recitare un drone (timido) e una testa mobile (spavalda); per quanto riguarda il debellare la pestilenza… ci proveremo, ma non garantiamo nulla! Al di là della battuta, proprio quest’estate a Chiusi, ci occuperemo di raccontare il territorio e, naturalmente, non potranno mancare gli etruschi.

 

D.: Mi scusi, torno alla domanda precedente solo per evidenziare le differenze tra un passato remoto e il presente: in una situazione pandemica dell’antichità, il teatro era considerato addirittura in grado di fermare la pestilenza; oggi, i teatri tornano ad aprire, sia pur con molte limitazioni, a distanza di più di un anno. Come si è organizzato con i suoi laboratori in questo disgraziato periodo?

 

R.: Dopo il lockdown di marzo 2020, che aveva interrotto tutte le attività, abbiamo scelto di dare continuità ai corsi, cercando soluzioni elastiche e inclusive. In zona rossa abbiamo lavorato a distanza, inventando storie in giro per il mondo con Google Earth; a scuola, abbiamo cercato di rendere normale ciò che normale non è, lavorando anche con gli studenti in quarantena che ci seguivano dai tablet sia in classe che durante le lezioni all’aperto. Volevamo dare un segnale importante in un periodo di grande incertezza: volevamo mostrare che si può continuare a stare insieme, a lavorare, a raccontare storie, qualunque cosa accada. In particolar modo per i giovani. che si sono visti da un giorno all’altro, privati della possibilità di svolgere attività sportive, culturali o ricreative e rischiano perdere la voglia di impegnarsi in progetti continuativi che sono importanti per la loro crescita.

 

D.: Lei è anche marito e padre di ben tre figli. Come concilia tutti i suoi molteplici impegni lavorativi con quelli familiari? A casa, sono tutti un po’ gelosi del teatro?

 

R.: Fortunatamente la mia compagna e io facciamo lo stesso lavoro e quando possibile coinvolgiamo anche i figli; sicuramente gli impegni sono tanti, ma riusciamo a passare molto tempo insieme. Come in ogni cosa il trucco è trasformare gli ostacoli in opportunità; ricordo che qualche anno fa stavo memorizzando per uno spettacolo il brano del Conte Ugolino, uno dei pezzi più drammatici e tragici dell’Inferno di Dante: divenne una ninna nanna per addormentare il figlio più piccolo… per fortuna non capiva bene le parole, ma solo il tono rassicurante con cui raccontavo.

 

D.: Lei racconta che la passione per il suo lavoro deve essere nata sui banchi del liceo, quando scoprì il piacere di raccontare storie ad alta voce, recitando monologhi ai suoi compagni di classe. Chiudiamo questa intervista con una domanda fantastica: se dovesse recitare un monologo il giorno in cui questa pandemia conoscerà finalmente termine, come lo intitolerebbe?

 

R.: “Basta parole, abbracciamoci”.