La scatola dei ricordi: il racconto della domenica di Patrizia Patrizi
La “Fattoria”
Non so perché la chiamavano cosi, in realtà era un palazzo grandissimo di color rosso che si allungava su via Roma, dopo la stazione dei Carabinieri. C’è ancora oggi ma è stato trasformato in diversi appartamenti. Ai tempi invece si chiamava proprio la Fattoria ed era di proprietà, insieme a molti poderi e terreni agricoli nel comune di Cetona, di un signore di cui non ricordo le origini. Il mio babbo, prima di “mettersi in proprio” era il fattore che controllava la parte agricola dell’azienda mentre l’altro fattore, il babbo della mia amica cara d’infanzia, si occupava di tutta la parte amministrativa. La nonna paterna lavorava lì come capo cuoca ormai da anni, dopo che le era morto il marito e si era risposata con un dipendente della Fattoria. Lei e il secondo marito abitavano al secondo piano del palazzo, in un bell’appartamento. La mia amica abitava in quello di fronte con i genitori e il fratello. Tra i due appartamenti c’era un corridoio, dove a metà sia sul lato sinistro sia su quello destro, c’erano le stanze della segretaria, con cameriera personale, del padrone della Fattoria. A sinistra, questo strano appartamento diviso in due, aveva la cucina e la stanza della cameriera, a destra un salotto e la camera con bagno della segretaria. Lei era una signora altera che mi incuteva sempre un po’ di timore con quella sua crocchia di capelli in testa, i suoi tailleur attillati e le scarpe con il tacco alto. A Natale, però, mi arrivavano, da parte sua, meravigliosi regali come la bambola dai capelli turchini che parlava e camminava! Io e la mia amichetta,maliziose già a quell’età, o forse lo avevamo sentito dire “dai grandi”, eravamo sicure che non fosse solo la segretaria del padrone… non era sposata e… aveva una figlia…Andavo spesso dalla nonna e quindi spesso dalla mia amica. Passavo intere giornate alla Fattoria quando non c’era la scuola. Con i miei genitori abitavo nella stessa via, proprio di fronte all’ingresso degli uffici, però per andare dalla nonna e dalla mia amica, entravo dal portone posto in cima alla strada. Dalla nonna, facevo la doppia colazione, poi andavo a chiamare la mia amichetta e insieme scendevamo nel bellissimo giardino all’italiana della Fattoria che si trovava di fronte alle cantine e aveva anche una limonaia e i lavatoi con enormi vasche e “bucatoi” dove le lavandaie mettevano a mollo le lenzuola con la cenere. Per scendere al giardino c’erano due modi: o si passava dall’interno o da fuori accedendo dalla strada sotto la piazza del paese. Noi sceglievamo spesso di andarci passando dall’interno. Il motivo è presto detto: ci divertivamo a non farci accorgere dalle persone che erano negli uffici e ci sentivamo coraggiose perché dovevamo attraversare un enorme salone sempre al buio; la difficoltà stava anche nello scendere le scale, dal terzo al secondo piano, in legno massiccio che scricchiolavano sotto i piedi e ad ogni scalino ci fermavamo per capire se qualcuno ci aveva sentito. Il salone “oscuro” era un enorme sala da pranzo. Si affacciava su una grandissima terrazza, posta sopra il giardino attraverso due enormi portefinestre dai tendaggi di velluto accostati per non far entrare la luce; vi era disposto un tavolo da una ventina di posti con le sedie alte; in fondo c’era un pianoforte a coda, pesanti poltrone di pelle e un divano nascosto dentro una nicchia: qui ci nascondevamo, appena scesa la scala, per riprendere fiato e attendere il momento opportuno per arrivare a quella di fronte agli uffici che ci avrebbe portato di sotto, in giardino. Appena arrivavamo giù, eravamo contente come aver raggiunto un traguardo di una corsa! In giardino la mia amichetta ed io, inventavamo giochi più stravaganti. Le siepi di bosso, disposte a disegni, centrici, esagonali e quadrati, alimentavano la nostra fantasia. A parte, avere chissà quale missione segreta da compiere, ricordo due giochi tremendi; in uno prendevamo di mira le lumache: le tiravamo fuori dalla loro casina e le mettevamo dentro un recipiente; in un altro mettevamo nei tegamini una pappetta di terra, facevamo finta di cuocerla in una cucina per bambole, la mettevamo nei piattini e la facevamo mangiare alla nipotina del padrone della Fattoria che aveva quattro anni e che ce la lasciavano per farla giocare. Questo fatto fu scoperto subito, perché la bambina raccontò tutto alla mamma…ci misero in punizione e ci vietarono il giardino per un po’ di tempo!Per fortuna era quasi inverno…Con l’arrivo della primavera riprendemmo le nostre avventure…Ricordo che la mia nonna, all’ora della merenda ci chiamava dalla finestra: io e la mia amichetta ci disponevamo sul lato più esterno del giardino e la nonna, dalla finestra della cucina del suo appartamento al terzo piano del palazzo, con un lancio degno di un’olimpiade, ci tirava un sacchetto con dentro le frittelle di riso che noi gustavamo con un piacere che ancora mi fa ricordarne il sapore! La Fattoria era una fucina di cose nuove e anche soggetto di racconti divertenti; una volta il babbo mi raccontò di un vecchio contadino andato a far visita al padrone che stava al letto con l’influenza e che con l’occasione voleva comunicargli una bella notizia. La stanza da letto del padrone era al secondo piano del palazzo. Era una camera tutta color avorio, dalla mobilia al letto, dalle tende alle pareti. Aveva un grande armadio color crema con grandi specchi di fronte al letto. Il contadino bussò alla porta della camera, il padrone disse: “Avanti!” . Il contadino con il cappello in mano, entrò e rivolto allo specchio dell’armadio disse: “ Sor padrone, la mula ha fatto i mulini!” Il padrone dal letto rispose: “ a vento o ad acqua?”. Ancora rido, quando immagino la scena!