Il libro del mese di giugno 2022: “Il Marchese di Roccaverdina” di Luigi Capuana . Un invito a riflettere sulla parola “rimorso”, cioè sulla consapevolezza tormentosa di aver fatto del male
Di Francesca Andruzzi
Delle azioni poste in essere, anche delittuose, si deve sempre rendere conto. È questa una espressione il cui significato può essere tradotto nella necessità che vi sia sempre – come spesso è – un giudizio, terreno o divino; neanche in alternativa, per chi crede nella vita oltre la morte. I genitori saranno giudicati per le loro azioni dai figli divenuti adulti, gli alunni dagli insegnanti. I malfattori dai tribunali. Al giudizio terreno è possibile sfuggire. Ma c’è un giudizio, oltre a quello della vita ultraterrena, al quale non è possibile sottrarsi. Una voce interiore, che, comunemente, viene chiamata coscienza, parlerà per tutta la vita di quelle azioni che hanno creato danni, siano essi materiali o morali, al punto che diverrà talmente assillante da provocare un sentimento chiamato rimorso. Il vocabolario fornisce la seguente definizione di rimorso: consapevolezza tormentosa di aver fatto del male. “Consapevolezza tormentosa”. Quella che affligge il protagonista del capolavoro di Luigi Capuana, scrittore siciliano (1839-1915), giornalista, docente universitario e autore anche di fiabe. “Il Marchese di Roccaverdina” ci parla dell’arroganza dei ricchi, e perciò potenti, nell’Italia di oltre un secolo fa. La storia è nota ai più; ma per coloro i quali non la ricordassero o per coloro i quali non la conoscessero, l’invito alla lettura di questo romanzo diviene d’obbligo. Non solo perché in contraria ipotesi perderebbero un – lo ribadiamo – capolavoro della letteratura italiana, ma anche perché, fuori dai contesti scolastici (ove, sovente, non si va “oltre”) è maggiormente possibile cogliere il messaggio che ogni perla del nostro patrimonio letterario ancora ci invia, fidando in noi e in una lettura che vada, appunto, “oltre” la raffinatezza della scrittura, le doti dell’autore. Il messaggio (o meglio, uno dei messaggi) che ci ha trasmesso quest’Opera di indubbio valore storico e artistico e sul quale – come costume di questa rubrica – vogliamo concentrare la nostra e la vostra attenzione, è proprio la parola: Rimorso. Il Marchese di Roccaverdina uccide il marito di Agrippina Solmo, la quale, per molti anni, aveva prestato servizio nella casa del Marchese e non solo. Ma il Marchese non può sposarla senza che si sollevi uno scandalo. La darà a Rocco Criscione, il suo fattore, facendo promettere ai due che vivranno in castità. Il dubbio sulla violazione del giuramento spingerà il Marchese a uccidere Rocco. Viene, però, accusato e condannato Neli Casaccio, che in passato aveva minacciato Rocco. Neli morirà in carcere senza possibilità di riabilitazione. Tutti coloro i quali conoscono la verità moriranno anch’essi e non vi sarà più un testimone. O almeno così parrebbe. Perché il rimorso perseguiterà il Marchese per tutta la vita fino all’epilogo disastroso, come avviene quando si cerca invano di tacitare la propria coscienza. Anche Capuana scriveva per i bambini, come Carlo Lorenzini, in arte Collodi. Quest’ultimo volle rappresentare la coscienza nei panni di un Grillo (definito dall’autore “parlante”. Unicamente per lui Collodi userà questo aggettivo, nonostante tutti gli altri animali de Le avventure di Pinocchio fossero dotati di favella. E non fu un caso ) sempre respinto dal burattino che non vuole fare i conti con se stesso.Il Marchese di Roccaverdina non è certo un libro per bambini, ma parla agli adulti che non vogliono crescere, che non vogliono assumersi responsabilità e, proprio per questo, non vogliono rispondere alla coscienza (responsabilità: sembrerebbe l’abilità, la capacità di dare un responso, una risposta). Può accadere di sbagliare, con o senza intenzione; ma nascondere l’errore – o, come nel caso del Marchese di Roccaverdina, il fatto delittuoso – potrà forse sottrarci al giudizio degli altri, ma mai a quello della nostra coscienza che, a mezzo del rimorso, sarà lì, dentro di noi, per ricordarci, fino alla fine dei giorni, che abbiamo un debito da onorare. Qualcuno potrebbe obiettare che i cattivi, come il Marchese omicida, non possano sentire rimorso, poiché privi di coscienza. Capuana sembra pensarla diversamente. Egli testimonia, con il suo scritto, che anche l’arrogante, insensibile e disonesto Marchese ha una coscienza e, per questo, è capace di provare rimorso. Si può nascondere il rimorso agli altri, ma non a se stessi. Non si scappa dalla propria coscienza se non con la perdita della ragione. Inutile, perciò, sembra dire Capuana, dolersi che talvolta sfuggano al giudizio terreno coloro che non operano per il bene e scelgono il male. Anzi, meglio sarebbe che trovassero quel giudizio, ché fornirebbe loro una possibilità di pacificarsi con la coscienza. Il dolore che il Marchese di Roccaverdina provoca agli altri appare, poi, fonte di maggiore rimorso per la posizione ricoperta all’interno del contesto sociale in cui vive. Egli è un ricco proprietario terriero, un notabile, per usare una espressione un po’ antiquata. Ha potere sul suo fattore, sulla sua serva-amante, sulla moglie. E, per dirla con San Francesco a proposito di coloro che “sono costituiti in autorità sopra gli altri”: “tanto devono gloriarsi di quell’ufficio, quanto se fossero deputati all’ufficio di lavare i piedi ai fratelli. E quanto più si turbano se viene tolta loro la carica che se fosse loro tolto il servizio di lavare i piedi, tanto più mettono insieme per sé un tesoro fraudolento”. Scegliere il bene è sempre possibile, anche quando si è compiuto il male. Rinunciare a questa scelta significa tentare di uccidere la coscienza e convivere con il rimorso che logora e uccide la ragione.