Il libro del mese di giugno 2024:”Applausi e sputi” di Vittorio Pezzuto sul ‘Caso Tortora’, Sperling & Kupfer, 2008. Non è vero che le sentenze, anche quelle definitive, non si possano criticare. Le sentenze devono essere eseguite. E nel nostro ordinamento esiste la revisione del processo conclusosi con una sentenza inappellabile. Il rispetto del principio sancito dall’al di là di ogni ragionevole dubbio è sacro
Di Francesca Andruzzi
Era il 17 giugno 1983. Quarantuno anni fa. Enzo Tortora – giornalista e conduttore televisivo che aveva iniziato la sua carriera in radio, quando la televisione era ancora in mente Dei – viene arrestato all’alba, mentre si trova in una camera dell’Hotel Plaza, in Roma. L’arresto, il processo, la condanna a dieci anni e la successiva assoluzione, divenuta definitiva in Cassazione, furono eventi che si susseguirono nel corso di tre anni. Tre lunghi anni che videro Tortora – accusato di appartenere alla Nuova camorra organizzata – sottoposto a un importante stress psicofisico; stress che, è lecito supporre, fu la causa o la concausa della grave malattia che cagionò la sua morte il 18 maggio 1988, a soli 59 anni. Un errore giudiziario che ha fatto storia. Nel libro di Pezzuto, che vi proponiamo questo mese, non c’è solo la narrazione della vicenda processuale, ma anche un magnifico ritratto di Tortora, dagli anni della gioventù fino alla fine, giunta troppo presto. Il padre lo voleva avvocato, ma Enzo Tortora era nato giornalista e conduttore, prima radiofonico, poi televisivo. Serio, professionale, coltissimo. Non sempre si rese simpatico alle dirigenze Rai e ai suoi stessi colleghi. La spiegazione potrebbe trovarsi nel ricordo di Piero Angela, grande amico di Tortora, riportato in Applausi e Sputi: “…A unirci era soprattutto una grande passione per il lavoro e anche il fatto di essere persone indipendenti, professionisti puri che non dovevano l’impiego in Rai all’interessamento di qualche ministro o sottosegretario. Già allora era un perbenista, animato solo da principi di onestà e indipendenza. Aveva forse un unico difetto: si lasciava trasportare nei giudizi da una forte emotività.” (pag. 11). I giudizi di un uomo serio, onesto, indipendente, colto, sono, per certo, lo specchio delle richiamate caratteristiche, che parlano solo di verità. Diventano, però, difetti, quando vengono espressi e Tortora non la mandava a dire. La verità espressa, è noto, diventa un difetto. Insomma, la verità si può pensare, ma non si può dire. In seguito alla esperienza lavorativa maturata presso la televisione svizzera, lancia, nel 1963, una evidente implicita stoccata a quella italiana: “Dei cameramen senza camice bianco compiono egregiamente il loro lavoro; in tutta la Televisione svizzera non c’è un funzionario, non c’è un dirigente che tolleri – senza offendersi a morte – di essere chiamato dottore. In tutta la televisione svizzera non c’è un direttore irreperibile che costringa a ore di borbonica anticamera e si trinceri, poi, come scusa per non ricevervi, dietro il fatto che il dottore è in riunione. Per entrare nell’ufficio di un responsabile dei programmi della Televisione svizzera basta girare la maniglia di una porta. Nei corridoi della Televisione elvetica non fioriscono i funghi e le madrepore delle più cancrenose incrostazioni politiche: non sbadigliano i burosauri, non oziano in sonnanbolici turni i raccomandati di questa o quella corrente. Nessun dirigente trema a ogni stormir di onorevole, nessun caposervizio sbianca a ogni sussurro di cardinale” (pag. 29).Non era simpatico, Enzo Tortora, nell’ambiente lavorativo, anche perché diverso da molti colleghi. Il suo stile manierato, improntato alla buona educazione, mai sboccato, pungente ma mai volgare, forse suscitava invidia. Male comune e vizio di corte, così definiva Dante Alighieri l’odioso sentimento dell’invidia. Il pubblico, invece, lo amava. Gli ascolti delle numerose trasmissioni, che aveva condotto in radio e in televisione, testimoniavano l’affetto degli italiani e la loro voglia di seguire un personaggio fuori dagli schemi che si andavano imponendo negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, nei quali principiava la confusione. La libertà veniva spesso interpretata come possibilità di dare sfogo agli eccessi, alla volgarità. Tortora difendeva il varietà, la satira politica, ma era convinto che tra i compiti della televisione vi fosse anche quello di “somministrare… qualche robusta iniezione di intelligenza e di cultura. Magari a dosi d’urto” (pag. 34). Tortora scrive così, sulla Domenica del Corriere, nel 1963: “Nell’Italia del miracolo economico, del pentacamere biservizi, dello sprint di Helenio Herrera, lo sviluppo culturale non è precisamente andato di pari passo con il boom dell’industria; qui da noi c’è ancora troppa gente con il cappotto di cammello, con il rituale ‘Comm.’ sul biglietto da visita, che confonde Sofocle con il solfito di sodio. Tutte le televisioni d’Europa (quelle britannica e francese in prima linea) hanno da tempo abituato il loro pubblico a un linguaggio ben più elevato di quello, sciattarello e banale, che gronda dal video di casa nostra: è ora che certo pubblico diventi adulto, metta i calzoni lunghi e smetta di correre, con l’acchiappa-farfalle, dietro alle facili battute di un comico di periferia o agli slogans di Carosello. Ci saranno sbandamenti e proteste: è naturale. Nella sterminata periferia italiana, dove i libri avanzano a fatica come il chinino nella giungla, si griderà alla noia. Che gridino. Non esiste un diritto all’ignoranza: lo nega ogni popolo civile; lo afferma persino la Costituzione” (pag. 34).Il clamoroso successo di Portobello, poi, fu la conferma dell’affetto e della stima del pubblico: mai una seconda serata aveva raggiunto ascolti così alti. Anche se di intrattenimento, il programma era ricco di cultura, di spunti storici e geografici, condotto da Tortora con una proprietà di linguaggio senza eguali e con una eleganza d’altri tempi. Eppure, questo suo modo di essere, così apprezzato dal pubblico, verrà considerato come una mistificazione, un paravento. Ecco un passo della sentenza di condanna, riportato nel libro che questo mese vi proponiamo: “Enzo Tortora ha dimostrato di essere un individuo estremamente pericoloso riuscendo a nascondere per anni, in maniera egregia le sue losche attività e il suo vero volto, quello di un cinico mercante di morte tanto più pernicioso perché coperto da una maschera tutta cortesia e savoir faire”. Per questo, come sta scritto, non gli furono riconosciute le attenuanti generiche. Vi lasciamo alla lettura di questo ben libro che ripercorre le tappe dell’errore giudiziario più famoso della storia d’Italia. Oggi, vogliamo riflettere con i nostri lettori sugli errori giudiziari che hanno investito gli illustri sconosciuti. Fu lo stesso Tortora a parlare di loro, delle persone condannate ingiustamente, con grande empatia. Secondo l’Osservatorio sull’Errore Giudiziario dell’Unione Camere Penali, dal 1991 – successivamente, perciò alla vicenda di Tortora – al 2022 si contano 222 errori giudiziari che hanno determinato esborsi per lo Stato (e, dunque, per i contribuenti) pari a 2,7 milioni all’anno per i risarcimenti. Sono i numeri degli errori giudiziari che sono stati scoperti. Ignoto quello degli errori ancora da scoprire. Se mai dovesse accadere. L’errore giudiziario non rappresenta solo un costo, in termini di stress psicofisico e monetario, per le vittime. Ricade anche sui contribuenti. E vi è una ricaduta anche in termini di immagine per lo Stato, indiscutibilmente. L’ultimo caso, quello di Beniamino Zuncheddu, che ha scontato una pena di 33 anni da innocente, quale poi è risultato essere, ha sconvolto l’opinione pubblica italiana. Tortora fu accusato dai cosiddetti dissociati o pentiti che avevano fatto parte della organizzazione cutoliana; Zuncheddu, da un sopravvissuto alla strage che, in seguito (dopo 30 anni), ha ritrattato. Le accuse, da chiunque provengano, dovrebbero essere riscontrate dalla magistratura. Altrimenti, tutti potremmo rischiare di essere accusati da qualcuno solo perché a quel qualcuno non siamo simpatici, solo perché quel qualcuno decide di accusare noi per non accusare altri, solo perché quel qualcuno vuole salvare sé stesso o perché così richiestogli da terze persone. O, più semplicemente, involontariamente. Per sbaglio o per calunnia, però, gli effetti devastanti sono gli stessi. Se anche la confessione deve essere riscontrata, poiché non è sufficiente per determinare la condanna, figurarsi le dichiarazioni di accusa di terze persone. E i magistrati che avevano pronunciato condanna, come si saranno sentiti dopo aver visto le loro sentenze riformate? Errare è umano, certamente. Ma vi sono situazioni in cui l’errore può sconvolgere la vita delle persone, cambiarla totalmente, lasciando ferite che non possono rimarginarsi. Chi sbaglia paga e i cocci sono i suoi, recita un vecchio adagio. In ambito giudiziario, evidentemente, non funziona sempre così. Torniamo al caso Tortora e vediamo perché. Un articolo di Stefano Bargellini fa da prologo alla riedizione di “Lettere a Francesca” (le lettere che Tortora scrisse a Francesca Scopelliti, la sua compagna). Riportiamo un passo significativo dello scritto di Bargellini: “1.I magistrati che inquisirono e condannarono Tortora fecero tutti carriera. Nessuno subì un qualsiasi provvedimento disciplinare o vide rallentata la normale progressione professionale. 2.Uno dei magistrati che sostenne l’accusa nei confronti di Tortora venne eletto al CSM. Cioè i magistrati italiani scelsero uno degli inquisitori di Tortora quale rappresentante nel loro organo di autogoverno. Circostanza che conferma quale insegnamento la magistratura abbia tratto dal sacrificio dell’imputato. 3.Non fece carriera il consigliere Michele Morello, estensore della sentenza di appello che assolse Tortora. Dopo la decisione alcuni colleghi gli tolsero il saluto. A lui andrebbe invece intitolata almeno un’aula della Corte d’Appello di Napoli, non solo per l’opera che ha saputo svolgere nella circostanza, ma per l’attitudine a rappresentare i tanti magistrati indipendenti, preparati e schivi ai quali sono affidate le nostre cause. Non sempre, purtroppo.” Magistrati indipendenti, preparati e schivi, scrive Bargellini. Proprio come era Enzo Tortora. Esistono e sono la maggioranza, indubbiamente. Grazie a loro la giustizia ha trionfato e continuerà a trionfare. Ma non si possono più ignorare le conseguenze prodotte dagli errori giudiziari. Tanti o pochi, non importa. Sono errori che incidono pesantemente sulla vita delle persone. Le cronache ci parlano di casi definiti con sentenze passate in giudicato, per i quali i legali dei condannati hanno chiesto la revisione del processo o si sono dichiarati insoddisfatti per l’esito. Non è vero che le sentenze, anche quelle definitive, non si possano criticare. Le sentenze devono essere eseguite. E nel nostro ordinamento esiste la revisione del processo conclusosi con una sentenza inappellabile. Non a caso. Perché l’errore è umano. Ma il rispetto del principio sancito dall’al di là di ogni ragionevole dubbio, introdotto solo nel 2006 formalmente, ma da sempre presente nella sostanza, è sacro. Vi lasciamo, perciò, alla lettura di Applausi e Sputi e alla ricerca dei messaggi e degli spunti di riflessione che contiene. E sono davvero tanti. E per conoscere un po’ di più, anzi meglio, Enzo Tortora e la bellissima persona che era. Glielo dobbiamo. Tutti. Perché anche le sentenze di ingiusta condanna sono pronunciate in nome del popolo italiano.