Oggi sesto appuntamento con i canti del Purgatorio della Divina Commedia “rivisitati” dal poeta Piero Strocchi

56 (canto n. 13 del Purgatorio) (Sapìa Salvani)
Luogo – (Purgatorio, Seconda Cornice);
Custode – (Angelo della Carità);
Peccatori – (Invidiosi);

Peccato – (Mancanza di amore verso il prossimo);
Pena – (Avevano gli occhi cuciti da un fil di ferro, ed indossavano un cilicio);
Personaggio – (Sapìa Salvani).
Eravamo arrivati nel punto più alto della scala che ci stava conducendo nella Seconda Cornice, che ci apparve parecchio differente,
E di minor grandezza rispetto alla Cornice precedente.
Non vedemmo sculture sulle pareti oppure a rilievo sul pavimento e a dire il vero, la visione ci apparve più tetra;
Piuttosto le pareti eran rocciose e del colore livido della pietra.
Nessuno a noi si avvicinò per fornirci informazioni
Sul sentiero da percorrere: erroneamente immaginai che procedessimo senza precise cognizioni.
Quando Virgilio si volse alla sua destra, orientando il suo sguardo verso una luce alquanto esuberante,
Che riconobbe esser la nostra guida, in quel percorso, pur più leggero, ma comunque per me abbastanza affaticante.
Procedemmo in modo anche spedito per circa un miglio,
Quando riconoscemmo degli Spiriti Volanti più su, appena in là,
Che a voce alta richiedevano gesti di carità.
Eravamo nella Cornice delle anime penitenti di coloro che in vita erano stati Invidiosi,
E quegli inviti alla carità, lì nel Purgatorio, mi risuonarono quasi impetuosi.
Quale opposto contrappasso di una vita vissuta proprio nell’invidia, per scelta propria o anche di riflesso;
Come forse accadde anche più spesso.

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“Osserva attentamente la Cornice – queste le parole di Virgilio – e vedrai alcune anime appoggiate lungo la parete: sono le anime penitenti degli Invidiosi”.
Osservai bene sì, indossavano mantelli di ugual colore della pietra;
Stavano recitando tutti insieme, le loro litanìe: quei sussurri, un pò scoordinati, mi apparvero un poco ansiosi,
E provai per loro un pò di pena per quei lamenti che al mio orecchio giungevano affannosi.
Ad osservarle sopraggiunse inevitabile qualche lacrima sul mio viso;
Le anime penitenti erano coperte con un panno ruvido e pungente, che cadeva dalle loro spalle, quasi si trattasse di un cilicio.
Ognuna sosteneva l’altra con la propria spalla, mentre tutte loro si appoggiavano alla parete, così almen da trarne individualmente, un parziale beneficio.
Sembravano quei barboni che incontriamo, seduti sul sagrato di una chiesa, che delle loro carenze ormai appaion prigionieri,
E che fanno affidamento sulla carità del singolo passante, che talvolta si commuove nel vederli così miseri.
Un fil di ferro cuciva i loro occhi, che a ben osservarli,
Parevano sparvieri selvaggi, al compimento dei gesti che son tipici dell’addestratore nell’addomesticarli.

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Mi parve oltraggioso il mio camminar tra quelle anime,

Che non potevano dar riscontro al mio sguardo.
Lacrimando dai loro occhi quasi serrati,
Li vedevo sul fronte opposto, verso la parete rocciosa, lì, tra loro disseminati.
Sollecitato da Virgilio, a quelle anime penitenti mi rivolsi chiedendo se tra loro, ci fosse per caso qualche italiano:
Un’anima mi rispose che pur sostando in Purgatorio, erano tutte anime indirizzate in Paradiso, che del resto ormai, non appariva loro più tanto lontano.
Ad essa mi avvicinai e con fatica, scorsi un’ombra, che a me si approssimò;
Che aveva un fare come se non mi scorgesse bene, infatti il suo mento verso di me di un poco sollevò.
Chiesi a quell’anima penitente quale fosse il suo nome, e quale fosse stata in vita la sua posizione;
Mi rispose di essere stata senese, e di far pubblica ammenda per le sue colpe, a volte realizzate senza una plausibile ragione.
“Sono Sapìa Salvani, e in vita fui sempre alquanto lieta degli altrui danni,
Piuttosto che dell’altrui felicità, in realtà, non riuscendo a vestire mai quei panni.
Nacqui Ghibellina, finché non sposai Ghinibaldo Saracini, mio marito, ch’era Guelfo, e per motivi politici ma anche di casato, finii per avere invidia ed odio nei confronti dei miei concittadini;
Maturai un odio politico in particolare contro mio nipote Provenzano Salvani, che capeggiava tutti i senesi Ghibellini.
Durante la battaglia del giugno 1269 a Colle Val d’Elsa, dove morì anche quel mio odiato nipote, pregai Dio di procurare ai miei concittadini una grave sconfitta.
L’invidia ormai aveva preso su di me il sopravvento:
Pur sentendomi cosparsa di un razionale discernimento.
In via delle Volte, a Siena,
Per mano di un sicario interruppi bruscamente la mia vita terrena.
Solo Pier Pettinaio, un francescano, che in giovane età commerciava in pettini per tessuti, offrì a Nostro Signore le sue preghiere in mio favore quando si recava in oratorio;
Altrimenti sosterei ancora in attesa, lì nell’Anti Purgatorio.
Ho pur visto che i tuoi occhi sono aperti, e che tu sei un vivo; ora se ritieni rivelami il tuo nome,
Affinché della tua persona io possa far miglior menzione”.
“Il mio nome è Dante, le risposi,
Ed anche i miei occhi saran cuciti, in questa Cornice, però per poco tempo;
Non essendo stato molto invidioso nel corso della vita, per mio scampo.

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Mio lettore, qualche critico in futuro definirà “debole” questo mio Canto,

Ma alla mia narrazione lo trovo ben finalizzato, io l’ho trovato invece funzionale, e di esso affatto me ne lamento …
Forse l’invidia ha colto nel segno,
D’altra parte è solo un tassello di un più ampio disegno …

60 (canto n. 14 del Purgatorio) (Guido del Duca, Riniero da Càlboli)
Luogo – (Purgatorio, Seconda Cornice);
Custode – (Angelo della Carità);
Peccatori – (Invidiosi);

Peccato – (Mancanza di amore verso il prossimo);
Pena – (Avevano gli occhi cuciti da un fil di ferro, ed indossavano un cilicio);
Personaggi – (Guido del Duca, Riniero da Càlboli).
Due anime penitenti degli invidiosi della Seconda Cornice alla mia destra, con fatica mi osservarono,
Per via del fil di ferro che faceva da cesura ai loro occhi;
Si chiesero perché io fossi vivo, e soprattutto perché i miei occhi tutto rimirassero;
Nel loro ciondolare fiacchi.
Uno dei due alzando più lo sguardo,
Per quanto a lui possibile mi osservò,
Chiedendomi da quale luogo provenissi,
E soprattutto chi io fossi, con un parlarmi che manifestava però nei miei confronti, più d’un riguardo.
Così gli risposi, senza ancor saper chi loro fossero: “In Toscana, dal monte Falterona, ricco di faggi, nasce l’Arno, che inonda le terre mie natali”.
Ancora non avevo riferito loro il mio nome,
E null’altro aggiunsi ad evitar conclusioni banali.
Una delle due anime che poi mi disse esser Guido del Duca, notò che mi riferivo all’Arno;
Mentre l’altro, che poi mi disse esser Rinieri da Càlboli, chiese al suo vicino, come mai avessi una qualche reticenza a nominare quel fiume reale, cioè quel fiume che conclude il suo percorso in mare, e ciò che c’era al suo contorno.
Guido del Duca per tutta risposta mi sottolineò:
“La Val dell’Arno dalla vista umana, dovrebbe scomparire”.
Non sapendo io però per qual motivo quelle conclusioni andava traendo.
Ed ancora: “L’Arno scorre lungo la provincia Casentina,
I cui abitanti, come porci – che tali nomino da Castel Porciano – son più degni a mangiar ghiande, piuttosto che cibo umano;
Per poi attraversare, l’Arno, il territorio Aretino, dove ognun di loro, pur usando toni minacciosi, nella sostanza, offese non declina;
Per poi scender da basso, ben ingrossato, ad incontrare i Fiorentini, che son cani ormai da tempo trasformati in avidi lupi;
Concludendo il percorso nel bacino dei Pisani, dove le sue acque dolci si congiungono al mare; territorio denso di volpi dedite a comportamenti fraudolenti e cupi”.

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Assunse la parola ancora Guido: “Il nipote di Riniero, Fulcieri da Càlboli, appena sarà nominato Podestà di Firenze, nel 1303 diverrà un crudele cacciatore di lupi fiorentini;
Cioè dei Guelfi Bianchi della città del giglio, dei quali venderà la carne ancor prima della loro morte: ebbene, mille anni ci vorranno per dimenticare quel terrore e per restituir normale vita a quegli sventurati cittadini”.
Nel mentre Guido parlava, Rinieri rattristato, ascoltava con dolor le sue parole,
All’altro prestando un’attenzione meritevole.
A questo punto invitai entrambi a rendermi noto il loro nome.
Mi rispose il primo: “Guido del Duca io mi chiamo, sono stato un nobile romagnolo di Bertinoro, sono il figlio di Giovanni Onesti di Ravenna, Ghibellino di fazione, e vissi una vita consumato dall’invidia, al punto che: «che se veduto avessi un uomo farsi lieto, visto m’avresti di livore sparso»”.
Senza oltre soffermarsi, mi presentò il suo compagno di penitenza:
“È Rinieri da Càlboli, che a differenza dei suoi eredi fu uomo che diede al suo casato alta onoranza”.

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Ma quanto son cambiate con l’andar del tempo le famiglie dei nobili e dei cavalieri di Romagna,
Che le virtù caratteriali ed i valori morali e di cavalleria hanno perso in un paio di generazioni; che è quasi una vergogna !!!
Guido mi nominò antichi virtuosi romagnoli di cui però nulla io sapevo;
E si chiese dove siano oggi uomini come Lizio di Valbona, un nobile Guelfo Bianco Faentino, oppure Arrigo Mainardi, di un famiglia di Ghibellini, poi divenuta Guelfa, sempre della zona di Bertinoro, ovvero Pier Traversaro alla cui famiglia fu legato anche il destino dei Minardi, e Guido di Carpegna, dai cui discendenti derivarono i Montefeltro, conti e duchi di Urbino.
E come mai a Bologna
Non esistessero più uomini come Fabbruzzo dei Lambertazzi, nato intorno agli anni ’40 del Duecento, la cui famiglia nobile possedette castelli e torri; oppure a Faenza come Bernardino di Fosco, messosi in luce nel 1240 nella difesa della sua città, assediata da Federico II, e divenuto nel 1248 podestà prima di Pisa, e poi nel 1249, di Siena.
Guido addirittura pianse, ricordando:
– Guido da Prata, suo contemporaneo, nativo di quella terra tra Ravenna e Faenza, nei pressi di Russi, all’epoca consigliere comunale di Ravenna;
– Ugolino d’Azzo, poeta cortese e  cavaliere, rappresentante di quell’ambiente comunale sano e rude che ancor rimpiango nella Firenze del buon tempo antico;
– Federigo il Tignoso, cavalier cortese, spirito invidioso, chiuso a ogni far caritatevole, ma attento alla gentilezza tipica della terra di Romagna.
I Traversari, amministratori dei beni della Chiesa ravennate, tra cui la contea di Traversara presso Ravenna, dalla quale la famiglia prese il nome;
E gli Anastagi, famiglia ravennate, ostile ai Traversari, pur essendo entrambe famiglie Ghibelline;
Ognun di quelle famiglie, almen con un erede svenevole e con una grazia esagerata e innaturale, da apparir lezioso.
“I cuori ora son diventati più malvagi – accorato proseguì – e la città di Bertinoro dovrebbe scomparire, perché lì non vi sono più nobili cavalieri.
Meglio piuttosto il non aver più discendenti, come avvenne per i signori di Bagnacavallo;
Male invece fecero i signori di Castrocaro, che al contrario, generarono eredi sempre più corrotti, certo non da tener a modello.
I Pagani di Susinana in Val di Senio – sempre in Romagna, località concessa in feudo agli avi di Pagani dalla mensa episcopale fiorentina, alla quale, nel Sec. X° era stata donata dagli Ubaldini – si comporteranno bene, sol dopo la morte di Maghinardo; ma non al punto di annullare il ricordo della cattiva fama che la storia pur gli assegna.
Duplice fu la sua politica collocazione: in Toscana, dove agì a favore dei Guelfi, ed a settentrione, e cioè in Romagna, dove fu spesso in combutta con la sponda Ghibellina, per il suo agir contro Bologna.
Giusto fu invece il destino di Ugolino dei Fantolini, nobile Faentino di Cerfugnano – che più tardi si chiamerà Zerfognano di Brisighella in provincia di Ravenna – perché la sua discendenza, dai suoi due figli venne interrotta”.
E qui Guido concludendo il suo discorso si commosse, e mi invitò ad allontanarmi; quelle sue parole, una lacrima dagli occhi gli avevano sottratta.

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Io e Virgilio a quel punto ce ne andammo, e nel frattempo sentimmo una voce che par venisse dall’alto, che sembrava ci dicesse: “Chiunque mi troverà, mi ucciderà”.
Poi quella cupa voce all’improvviso più non sentimmo, per poi sentirne un’altra che si lamentava: “Io sono Aglauro, la principessa trasformata in pietra”.

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Il ligneo caducèo dai due serpenti attorcigliato – raffiguranti il bene e il male – insieme al cappello a larghe tese, ai talari – ovvero i sandali alati – ed alla borsa, simbolo del frutto proficuo del commercio,
Erano la dotazione ed i simboli che Mercurio da sempre con sé sempre recava,
Anche quel giorno in cui il suo sguardo quello della stupenda Erse incrociò.
Aveva due sorelle Erse: Aglauro e Pandroso, e proprio quel giorno queste tre figlie del re Atteo – il primo re dell’Attica – stavano rientrando da una festa in onore della dea Atena,
Con le ceste inghirlandate che recavano ognuna sul proprio capo, e che portavano con gioia, ma per via del loro peso, anche con un pò di pena.
Mercurio dall’alto volando le intravvide nel loro incedere elegante;
Verso la reggia di Atene, dove le tre sorelle nel frattempo erano rientrate.
Poco dopo s’affacciò alla finestra Aglauro,
Che vide Mercurio, il dio volante, sì bello ed elegante da apparirle quasi un Centauro,
E si ardì a chiedergli il nome, oltre al motivo di quel suo transito in quel luogo.
“Sono Mercurio, il messaggero di Zeus, mio padre, e degli altri dèi dell’Olimpo;
Ho avuto modo di notare Erse, tua sorella, e di lei mi sono subito invaghito: aiutami, se puoi, a conquistarla”.
Aglauro si rese disponibile in tal senso,
Però chiedendo al dio per sé qualche compenso …
Aglauro appena ricevuto da Mercurio l’oro pattuito, fu colta da un’invidia incontrollata nei confronti della sorella, e non rispettò più quel patto.
Narra una leggenda che il dio Mercurio così tanto s’era infuriato, che entrò nella reggia e punì Aglauro trasformandola in una statua di pietra.
Ma questa storia te la vorrei narrare, mio lettore, anche secondo una diversa tradizione.
Atena, la dèa della guerra, armata di lancia ed egida – una corazza in pelle di capra – che tutto dall’alto osservava,
Direttamente con il suo sguardo, o tramite la sua fedele cornacchia bianca che poi le riferiva,
Non vide di buon occhio, tra Aglauro e Mercurio, quella chiacchierata,
Che dalla sua cornacchia le era stata immediatamente riferita;
Torvo divenne lo sguardo della dèa, nonché il suo pensiero,
Ancor di più quando si ricordò che Aglauro tempo addietro non aveva mantenuto l’impegno assunto di non aprire quel cestino chiuso – che la dèa le aveva consegnata tempo addietro – e dove aveva conservato Erittonio,
Il figlio di Vulcano che non era stato concepito da una donna, bensì dal seme paterno, a terra gettato da Atena, forse con disprezzo, che non si era lasciata conquistare dal “dio zoppo”.
Gea, la dèa Terra, mantenne a sé quel seme riproduttivo dal quale venne generato un fanciullo, che rispecchiava nel deforme aspetto suo padre: ma lui era nato con due serpenti al posto delle gambe, e quindi con un grave intoppo.
Atena ebbe pietà di quel bambino sfortunato,
E dentro un cestino ben sigillato lo depose, per mantenerlo nel tempo così conservato;
Cestino che Atena consegnò alle tre sorelle, che assunsero con lei formale impegno di non aprirlo mai, per l’eternità.
Ma così non fu, perché Aglauro non riuscì a tenere a freno la sua curiosità,
Poi però impazzendo in ragion di ciò che – lì dentro – aveva visto,
In mare disperata si buttò per la paura, dove venne tramutata in pietra nera …
Ma ancor diversamente da qualcuno venne narrato il finale di questa tradizione,

Riferendolo in altro modo, nella sua conclusione.
Intanto, pensò comunque Atena, non vorrei che Aglauro oltretutto si arricchisca da questa imprevista circostanza.
Furiosa la dea Atena si recò nella dimora di Eris, la dèa della discordia e dell’invidia:
Pallida era in volto, Eris sfuggente ed evasivo era il suo sguardo, del veleno era intrisa la sua bocca che faceva un certo orrore,
Mai rideva salvo che alla vista di un dolore.
Le chiese Atena: “Eris, col tuo veleno infetta in breve tempo Aglauro”; a seguito di ciò Aglauro venne colta da un occulto malessere, che la invase sempre più;
Però tanta era l’invidia di Aglauro verso Erse la sorella che di Mercurio s’era perdutamente innamorata, che piuttosto avrebbe preferito morire.
Il veleno di Eris, nel frattempo, iniziava a produrre i propri negativi effetti:
Le gambe di Aglauro ormai erano ferme, le giunture s’erano irrigidite, creandole grandi pene.
Senza più sangue, pallide ormai si presentavano le sue vene,
Ed anche il suo collo s’era irrigidito,
Dalla sua voce non sortiva più parola:
Aglauro immobile ormai si presentava, rigida e dura, come una pietra che poteva esser bianca, però era nera …
L’Invidia era stata distrutta da quell’insolita magia …
Come vedi, mio lettore, le storie possono pur esser narrate in modo differente,
Ma sovente conducono allo stesso risultato, e non sempre impunemente.
L’invidia reca con sé disdicevoli conseguenze,
Di solito trattandosi di gesta inopportune, che comportano violenze.
Riflettendo su quanto ho qui narrato, devo dirti che, un poco timoroso, mi avvicinai a Virgilio, seguendo, com’era naturale, la via maestra.