Il libro del mese di gennaio 2025: ‘La Tregua’ di Primo Levi, Ed. Einaudi, 1963

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Di Francesca Andruzzi

Gennaio è il mese dedicato alla Memoria e, come ogni anno, dedichiamo la nostra attenzione a un libro che la memoria possa stimolare, perché se il mondo continua a fare la guerra, significa che memoria non ha. Abbiamo scelto per voi La tregua, di Primo Levi, vincitore della prima edizione del Premio Campiello nel 1963, anno in cui fu pubblicato. Primo Levi tornò a scrivere, dopo Se questo è un uomo, per narrare i mesi successivi al gennaio 1945, i mesi successivi alla liberazione dal lager di Auschwitz ad opera delle truppe sovietiche. Questo libro sarà una vera sorpresa per chi ancora dovesse credere che, dopo quel 27 gennaio 1945, furono tutte rose e fiori. Molti prigionieri morirono immediatamente per il troppo cibo, altri perirono nel corso dei lunghi mesi precedenti l’effettivo ritorno alle proprie abitazioni. Primo Levi tornò nella sua Torino solo alla fine di quell’anno, dopo una vera e propria odissea. Fame, malnutrizione, malattie, violenze non cessarono immediatamente. Certamente, la prigionia sotto i sovietici non fu neanche paragonabile a quella patita ad Auschwitz; tuttavia, non si riusciva a comprenderne il senso. Lunghi mesi nei quali, volendo, si poteva evadere senza difficoltà, ma i molti che tentavano la fuga tornavano spontaneamente per la chiusura delle frontiere. Almeno nel campo qualcosa si poteva mangiare e si poteva anche lavorare. La prigionia in Russia non fu paragonabile, ma non fu neanche facile, come non fu facile il viaggio di ritorno; migliaia di chilometri in condizioni proibitive. C’è chi ha definito il clima del racconto e degli avvenimenti “più pacato e disteso” rispetto a Se questo è un uomo. Certamente, nulla di paragonabile – lo ribadiamo – nulla può essere paragonabile all’orrore dei lager nazisti. Certamente, nulla di paragonabile ai gulag sovietici descritti da Solzenicyn. Ma di questo asserito clima pacato e disteso, non abbiamo trovato traccia in questo libro. Come sia sopravvissuto Primo Levi anche ai mesi davvero difficili che seguirono all’apertura dei cancelli di Auschwitz, resta un mistero. Forse, non era giunta la sua ora. Quella che poi decise di far scoccare nel 1987, quando, si narra, pose fine alla sua vita. Un altro mistero: come ha potuto l’uomo che ha lottato per restare in vita dove tutto era morte, scegliere di morire sul finire degli anni ‘80? Ma fu veramente un gesto volontario? La colpa della caduta si potrebbe imputare alle vertigini di cui soffriva? Levi aveva sostenuto che la fortuna lo aveva salvato dalla follia del Terzo Reich, ma anche dai disagi, se così possiamo definirli, del periodo narrato ne La Tregua. “Fortuna” che, comunque, quell’11 aprile 1987, sembrò averlo abbandonato. Nel libro che vi proponiamo, Levi fornisce una accurata descrizione dei suoi compagni di viaggio. Tra tutti, spicca il greco Mordo Nahum, abile nel commercio. Memorabile il colloquio con Levi. Afferma Nahum: “Quando c’è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto: in primo luogo alle scarpe, in secondo luogo alla roba da mangiare; e non viceversa, come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovare da mangiare, mentre non vale l’inverso”. Ribatte Levi: “Ma la guerra è finita”. E Nauhm risponde: “Guerra è sempre”. Perché la guerra non finisce in un batter di ciglia, non è come chiudere un rubinetto decretare la fine della guerra. Questo libro lo testimonia. E finché, come Primo Levi, ci sarà chi porterà nell’animo lo strazio patito a causa del conflitto anche nei tempi di cosiddetta pace, “guerra è sempre”. Levi, infatti, chiude la narrazione con parole che sono più penose e strazianti delle vicende descritte. Perché qui è solo, perché qui non c’è neppure un velo di ironia. Descrive così il giorno del ritorno a casa, a Torino, il 19 ottobre1945: “Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a farmi riconoscere. Ritrovai gli amici pieni di vita, il calore della mensa sicura, la concretezza del lavoro quotidiano, la gioia liberatrice del raccontare. Ritrovai un letto largo e pulito, che a sera (attimo di terrore) cedette morbido sotto il mio peso. Ma solo dopo molti mesi svanì in me l’abitudine di camminare con lo sguardo fisso al suolo, come per cercarvi qualcosa da mangiare o da intascare presto e vendere per pane; e non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento. Ê un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade o si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’angoscia si fa più intensa e più precisa. Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era una breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. Ê il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, “Wstawac”.”.I danni della guerra sono incalcolabili e alcuni sarebbero davvero inimmaginabili se non ci fosse stato anche Primo Levi a testimoniarli. Perché la guerra non finisce in un secondo; la guerra si trascina, anche dentro ogni essere umano, per anni, per decenni. Guerra è sempre, aveva ragione il greco. Ci può essere una tregua o più d’una, ma guerra è sempre.