Montevarchi:  intervista con il giornalista Giammarco Sicuro , inviato speciale del Tg2 in Ucraina. Ha scritto il suo secondo libro “Grano” proprio dedicato al conflitto in Ucraina per raccontare in maniera più approfondita il vissuto quotidiano di quel paese, dettagli che per ragioni di spazio la Tv non  consente di narrare. L’8 luglio sarà premiato con il ‘Giogo d’argento’ a Montagnano, frazione di Monte San Savino. ” Occorre aumentare la presenza del giornalismo competente e professionale sui social, un campo che per anni è stato completamente trascurato dando spazio invece ad altre voci che – avverte – non sono né professionali né giornalistiche e hanno diffuso l’informazione sotto forma spesso anche di fake news”

Di Gilda Faleri

Giammarco Sicuro è giornalista e inviato speciale della sezione esteri del Tg2. Toscano, nato a Montevarchi, dopo la laurea in Scienze Politiche a Firenze ha frequentato la scuola di Giornalismo di Urbino. Lavora in RAI dal 2008 e in quindici anni ha seguito come reporter molti fatti di cronaca nazionale e internazionale. Nell’ultimo anno ha documentato la guerra in Ucraina passando 170 giorni in mezzo al conflitto. Ne parliamo con lui

D .Giammarco, dallo scoppio della guerra tu sei stato sette volte in Ucraina per documentare gli orrori e raccontare le storie delle persone coinvolte nel conflitto. Dopo il primo racconto autobiografico “L’anno dell’alpaca”, dove hai riportato la tua esperienza all’estero durante la pandemia, hai scritto il tuo secondo libro “Grano” nel quale parli del conflitto ucraino vissuto in prima persona. Qual è il ricordo che più ti è rimasto impresso nella mente di queste esperienze? Ce n’è uno che le accomuna?

R. Ad accomunare sicuramente è il fatto che spesso i gesti più straordinari e incredibili non arrivano da grandi condottieri o capi di Stato ma dalle singole persone. Quindi la dimostrazione già avuta durante la lotta contro il Covid, quando abbiamo visto quanti operatori sanitari, medici, infermieri e volontari nelle periferie del mondo abbiano fatto tanto per salvare migliaia di vite è stata ulteriormente confermata in Ucraina. Si è visto lo stesso impegno grazie al lavoro di tantissime persone di cui non avremmo saputo niente se non ci fossero stati i giornalisti della stampa internazionale che vanno in quei luoghi e approfondiscono, raccontano e rendono pubbliche delle storie incredibili di coraggio, di generosità e di altruismo.

D .Oltre a documentare giornalmente sia sui social che al TG, perché hai deciso di scrivere un libro sul conflitto ucraino?

R. Durante i periodi trascorsi in Ucraina molta gente mi chiedeva di raccontare il vissuto quotidiano. Quindi volevo rispondere alle classiche domande ( Come si vive in un posto di guerra? Cosa mangi? Dove dormi? ) e anche alla richiesta che mi è arrivata da molte persone di raccontare qualcosa in più rispetto al minuto e mezzo di servizio al telegiornale. In questo senso i libri sono straordinari perché ti permettono di raccontare anche dei dettagli e descrivere fatti che nella televisione non entrano per una questione di spazio e di tempo.

D. Fare il giornalista inviato nelle zone di guerra prevede la divisione tra ciò che vedi e vivi come essere umano in maniera soggettiva e i fatti che poi devi filtrare per riportarli in maniera più oggettiva possibile al pubblico, il famoso dovere di cronaca. Quanto è difficile dividere le due parti? Come riesci a farlo?

R .Credo di riuscirci grazie all’esperienza accumulata in anni da inviato, che ha permesso di strutturarmi creando una sorta di capacità di sopportazione anche di certe scene dolorose e di storie drammatiche. Perché a forza di trattare certi temi si riesce a prendere un po’ le misure, anche se ovviamente non siamo esseri cinici, però si cerca di affrontare gli argomenti con maggiore professionalità possibile, provando a mantenere un distacco se non emotivo almeno professionale. Anche se una guerra ha un livello di drammaticità talmente elevato che in alcuni casi sei sovrastato. È difficile scindere la cronaca dal dramma personale di tantissime persone.  Anche per questo credo sia importante andare in Ucraina per brevi periodi e prendersi poi un po’ di tempo per staccare. Un’eccessiva sovraesposizione al conflitto è veramente pesante per tutti.

D .Dopo aver visto e vissuto situazioni molto difficili e ascoltato racconti forti, come gestisci le tue emozioni al ritorno dalle zone di guerra?

R. Le gestisco grazie ad un periodo di distacco, tornando dai miei affetti. Poi c’è una rivalutazione del trovarsi in un paese in pace che comunque con tutti i suoi problemi, come possiamo avere qui in Italia, rimane una condizione privilegiata. Chi ha la fortuna di tornare da un paese dove è in corso una guerra, come l’Ucraina, può dire di essere al sicuro e anche se è un po’ egoistico e crea sensi di colpa per chi rimane là, dal punto di vista personale è un sollievo tornare in Italia e poter abbracciare una serie di bellezze che laggiù non ci sono più.

D. Vita quotidiana “normale” e guerra. Spesso sia nel libro che nei social descrivi situazioni di apparente normalità nelle zone di guerra come fosse un film: giardinieri che aggiustano i prati poco dopo le esplosioni, signore che escono con le scope per togliere i detriti subito dopo i bombardamenti, locali aperti ecc. Che spiegazione dai a questi atteggiamenti che per noi spettatori sono molto spiazzanti e incredibili?

R.È incredibile. Lo è stato anche per me a lungo i primi tempi, poi mi sono abituato e ho capito che fa parte proprio del modo di essere degli ucraini e credo anche di tutte le popolazioni che hanno vissuto l’epoca sovietica, è una disciplina di stato. Le persone sono abituate a rispettare le regole e a essere molto diligenti. Poi c’è anche un elemento psicologico perché quando vieni continuamente bombardato e la vita è resa impossibile perché vogliono distruggere la tua cultura e la tua società, tu fai di tutto per minimizzare questo impatto. Gli ucraini vogliono essere molto veloci nel dimostrare ai russi che resistono, riparano e rimettono tutto a posto subito.

D. Tu sei un giornalista che comunica molto anche attraverso i social media che sicuramente sono un grande strumento di comunicazione. Quali sono secondo te i limiti e le potenzialità dei social per un giornalista? Sono una risorsa che può integrarsi bene con il giornalismo?

R .Credo che serva aumentare la presenza del giornalismo competente e professionale sui social, un campo che per anni è stato completamente trascurato dando spazio invece ad altre voci che non sono né professionali né giornalistiche e hanno diffuso l’informazione sotto forma spesso anche di fake news e propaganda. È necessario essere più presenti nelle nuove piattaforme, perché comunque ogni statistica ci dice che la gente si informa sempre di più sui social, soprattutto i giovani, gli under 40. L’appello che faccio sempre è quello di dedicare più spazio e investimento al mondo dei social con un’informazione corretta e qualificata.

D. Arriviamo alle tue radici, qual è il tuo legame con la Toscana?

R. È un legame bellissimo che coltivo con grande gelosia. Mi piace tornare spesso, esserci il più possibile, nonostante i vari viaggi, anche perché è una regione dove mi sento sempre a casa, nonostante non ci viva da tanti anni e dove ho ancora tante persone a cui voglio bene, che mi fanno stare bene. Quindi è un posto straordinario.

D. La Toscana, come dicevamo, è la tua terra natale e sappiamo che una delle caratteristiche di noi toscani è quella di essere molto ironici e a volte anche autoironici. Quanto ti ha aiutato questo tuo lato “leggero” ma mai superficiale, che si evince sempre anche nei tuoi libri, ad affrontare situazioni molto difficili?

R. Senz’altro è una caratteristica abbastanza comune in Toscana quella di essere molto ironici. Sull’autoironia lo sono un po’ meno, nel senso che comunque i toscani sono molto permalosi. Anch’io sono abbastanza permaloso, però diciamo che ho imparato negli anni a prendermi un po’ in giro: quando viaggi tanto metti in discussione convinzioni e idee. Un po’ le tue certezze si sgretolano e quindi è abbastanza normale diventare autoironici.

D.Nel tuo libro “Grano” in un capitolo affermi di credere ancora al valore sociale del giornalismo. Come cerchi di applicare questo valore al tuo operato?

R.La cosa più importante è quella di creare dei ponti, quindi di sviluppare questa capacità che ha il giornalismo di mettere in connessione le persone. A volte queste connessioni diventano anche qualcosa di più perché quando si riesce a collegare una persona che ha bisogno di aiuto con un ente, un’associazione, un’organizzazione che ha la possibilità di risolvere quella questione in particolare, l’obiettivo è raggiunto. Riuscendo effettivamente a far funzionare queste connessioni che si creano tramite la visibilità giornalistica, si cerca di risolvere situazioni quindi questo è un po’ il tentativo che si fa ogni volta. Anche i nuovi strumenti social aiutano in questo senso, consentendo di creare raccolte fondi, di far conoscere realtà benefiche, tutte cose che prima era più complicato fare.

D. Tu sei un giornalista affermato e seguito e puoi essere d’ispirazione per i giovani che vogliono seguire la tua strada. Quanto è stato ed è difficile lavorare nel giornalismo di oggi in Italia?

R. È molto difficile purtroppo, perché è un mestiere da un certo punto di vista abbastanza compromesso, per le paghe che sono spesso ridicole, soprattutto per i freelance e per il livello di sfruttamento dato dalla ristrettezza dell’offerta di lavoro. Quindi avere l’opportunità di lavorare per il servizio pubblico, per un’azienda come la RAI è veramente un grande privilegio per me. In questo momento servirebbe curare di più il mondo dei media e il giornalismo in Italia perché altrimenti rischiamo veramente di perdere una giovane generazione di giornalisti. Molti rinunciano e altri scendono a patti per sopravvivere e questo ovviamente poi ha delle conseguenze sulla libertà di stampa e sul pluralismo, lo dicono anche le statistiche.

D. Tra dieci anni ti vedi ancora come inviato sul campo o hai altri progetti?

R. Dieci anni sono un po’ il limite, nel senso che comunque mi sono dato proprio un’altra decina di anni per continuare più o meno a fare questo tipo di lavoro. Poi vorrei dedicarmi all’insegnamento e di più alla scrittura. Mi piacerebbe provare a insegnare le cose che ho imparato, a raccontarle in maniera più approfondita, limitando le trasferte continue che sto facendo negli ultimi anni.