Quattordicesimo appuntamento con i canti del Purgatorio della Divina Commedia “rivisitata” dal poeta Piero Strocchi

 

123 (canto n. 28 del Purgatorio) (Matelda)
Luogo – (Paradiso Terrestre);
Personaggi – (Matelda, Proserpina e Plutone).
Ero impaziente, perché stavo entrando nel Paradiso Terrestre
La vegetazione era così fitta che quasi non filtrava il sole in quel luogo palustre.
Passeggiavo lentamente godendomi un leggero venticello
Che accarezzava gli alberi ed accompagnava gli uccellini nel loro cinguettio tranquillo,
Che sembrava di star nella pineta di Classe
Quando Eolo il vento di scirocco con sé par che recasse.
Era un “locus amoenus” anche per via del fiume Lete
Che tra l’erba lussureggiante lì scorreva, con le sue acque purissime e chete.

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Mi fermai ed inoltrai il mio sguardo al di là del fiume,
Dove mi accorsi della presenza di una giovane donna, dalla bellezza non comune,
Che camminava solitaria, mentre cantava e coglieva fiori dal rigoglioso prato.
Non conoscendo il suo nome a lei m’avvicinai chiamandola “bella donna”, con far garbato,

E la invitai ad avvicinarsi a me, con tono blando,
A che io meglio potessi intendere quel che stava cantando.
In quel momento mi si accese nella mente il ricordo di Proserpina, che nell’opera di Ovidio, venne rapita da Plutone,
Che il mondo per tal motivo perse la primavera, ovvero la sua miglior stagione.

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Proserpina in Sicilia quel giorno coglieva dei fiori
Insieme alle sue giovani sorelle godendosi la natura e non ancor pensando ai futuri amori,
Quando la vide il dio degli inferi Plutone
Che di lei subito s’innamorò e non perse l’occasione
Per rapirla e condurla nel suo regno
Per farle soddisfare ogni suo bisogno.
Proserpina era figlia di Zeus e di Cerere, la dea dell’agricoltura e dei raccolti:
Cerere non più trovando la figlia, ovunque la andò a cercare.
Nella sua ricerca Cerere però dimenticò la crescita delle messi e la rinascita della vegetazione,
Così sulla Terra fu duro quell’inverno che non finiva mai.
Cerere cercò Proserpina per mari e per monti, però non riuscì a trovarla, e disperata chiese aiuto a Zeus di fargliela ritrovare.
Il dio supremo che di questa storia nulla sapeva,
Anche preoccupato per la sorte che agli uomini ormai li attendeva
Che di freddo morivano e soprattutto di fame,
In modo accurato indagò e così venne a scoprire
Che nel mondo dei morti Proserpina era andata a finire.
Cerere di ciò molto arrabbiata in tono alterato riferì a Zeus: “Non farò crescere più vegetazione fin quando Proserpina non tornerà a casa”: la situazione si faceva assai complessa:
Zeus a quel punto
Convocò Plutone nell’Olimpo
Per poter sciogliere quell’intricata matassa.
Gli disse Plutone: “È vero che l’ho rapita e per Proserpina ho perso la testa.
O sommo Zeus, lei è diventata la regina del mio regno, e la tratto con cura, ma se posso assecondarti lo farò ben volentieri, per cui avanzami pure la tua richiesta”.
Gli rispose Zeus: “Plutone, la rivoglio sulla terra mia figlia Proserpina”.
Replicò Plutone adducendogli qualche giusta ragione: “Tempo addietro Proserpina mangiò sei grani di melograno, che non avrebbe dovuto mangiare, e per fortuna non mangiò l’intero frutto:
In ragione di ciò posso concederti di farla tornare sulla terra, da sua madre per soli sei mesi, e non per l’anno tutto”.

Zeus nulla potendo fare in quella circostanza, accondiscese.

Ecco perché da allora per sei mesi, cioè in primavera ed in estate, Cerere per la gran voglia di riavere la figlia con sé, rinverdì la natura e realizzò la fioritura di ogni frutto e di ogni foraggio,
Mentre negli altri sei mesi, triste per aver la sua Proserpina lontana, malinconica spogliava gli alberi e rattristava il paesaggio.
Così nacquero le stagioni
Con le loro diverse seduzioni …

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Somigliava a Lia, la ragazza del mio sogno nel Canto precedente, questa donna leggiadra che mi sorrideva gioiosa contemplando l’opera divina, era lì nell’Eden, sorridendo alla grande bellezza della vita,
Mantenendo gli occhi bassi, un pò timorosa, come farebbe una vergine pudica.
Quasi sottovoce mormorò il suo nome, ch’era Matelda: quella per me era una donna ideale.
Raffigurava quello stato primordiale di purezza che l’essere umano certamente possedeva quando sostò nell’Eden, prima ancora del peccato originale.
Del resto l’Eden, usando le parole di Ovidio, era “il luogo dell’eterna primavera” di quell’abbondanza però dall’uomo perduta, proprio come perse la primavera con il ratto di Proserpina.
Annuirono Virgilio e Stazio nell’ascoltare queste mie considerazioni che feci ad alta voce.
Il mito classico apparve loro esaustivo a fornir giusto chiarimento,
Anche dell’evento del peccato originale che proprio lì nell’Eden aveva trovato il proprio compimento.

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Stazio mi aveva spiegato in precedenza che nell’Eden non c’erano perturbazioni atmosferiche:
E allora mi chiesi come mai invece ci fosse il vento e l’acqua.
A questa mia domanda d’impulso rispose Matelda: “Dio ha creato l’uomo buono, disposto al bene, ed al fare cose logiche,
E gli ha dato l’Eden quale caparra per la sua eterna beatitudine.
Si sa come andò la faccenda del “peccato dell’origine”.
Quanto al vento dell’Eden, esso era dovuto agli astri che sono in cielo, e che con la loro rotazione
Muovono l’atmosfera, generando il movimento delle fronde, che a sua volta crea l’aria, da cui poi deriva il clima e la vegetazione.
Quanto all’acqua dei fiumi, essa non scaturisce da una vena spontanea, alimentata dalle piogge naturali,
Ma esiste per volontà divina, così come altre piante che qui si vedono, e che in terra prima non conoscevate.
Il fiume Lete tra l’altro cancellava la memoria dei peccati commessi,
Mentre il fiume Eunoè rafforzava il ricordo del bene compiuto.
E concludo con un’ultima considerazione: i poeti classici quando narravano del Parnaso, di sicuro avevano in mente il Paradiso Terrestre
Dove il loro nettare erano le acque del fiume Lete e dell’Eunoè, dov’era sempre primavera, dove c’erano frutti di ogni specie, e non occorreva nulla oltre”.
Poi mi voltai indietro verso Virgilio e Stazio che erano sorridenti per aver sentito quelle considerazioni,
Poi nuovamente a Matelda rivolsi tutte le mie attenzioni …

 

128 (canto n. 29 del Purgatorio) (Nell’Eden, il carro e la rappresentazione della Chiesa)
Luogo – (Paradiso Terrestre);

Personaggio – (Matelda).
Ero nell’Eden, e Matelda nel suo canto arcadico e pittoresco,
Esaltò i beati che ormai avevano già scontato le loro pene.
Ella risalì il fiume Lete proprio come fanno le ninfe del bosco,
Invitandomi ad osservare ciò che avverrà lì da presso, come meglio si conviene.
Un bagliore, quasi si trattasse di una scarica elettrica, quell’intera foresta nel frattempo illuminava,
Che il lampo al suo confronto era un passaggio di luce del tutto temporaneo.
Nel mentre una dolce melodia nell’aria risuonava:
E fu allora che in cuor mio biasimai lo spirito ribelle di quella prima donna, perché quel suo impulso incontrollato ed istantaneo
Grave danno arrecò all’umanità con il suo conseguente epilogo,
Che dopo quel peccato non potette più goder delle delizie di quel luogo.

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Percepii nell’aria un intenso sentore mistico,
E mi sentii a quel punto di invocar l’ausilio delle Muse, per evitar il mio esser troppo ermetico:
Di Urania in particolare, la Musa dell’Astronomia e della celeste scienza,
Non per limitare, bensì per elevare il mio narrar secondo quella specifica esigenza.

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Credetti di vedere sette alberi d’oro, ma quando più mi avvicinai a ciò che mi appariva su nel cielo, vagamente,
Riconobbi invece sette candelabri, l’un dell’altro verso l’alto più fiammeggiante,
Offrendo un calore assai più intenso che la luna a mezzanotte,
Mentre sentivo un cantar di “Osanna”, con voci melodiose e devo dir adatte.
Mi rivolsi pieno di meraviglia al buon Virgilio, anche lui in contemplazione,
Ormai il Maestro aveva esaurito con me la sua didattica funzione.
Tornai ad osservare ciò che si muoveva verso di me lentamente,
Che Matelda poi mi riprese energicamente:
“Perché osservi solo i candelabri e piuttosto non poni alcuna attenzione a ciò che c’è dietro, cercando di interpretare quelle nebulose fattezze?”
Vidi solo allora dietro a quei candelabri, alcune figure di bianco vestite,
Le cui fiamme avanzavano a me dinanzi, ben spedite.
L’aria soprastante mi apparve segnata da sette strisce pari ai colori dell’arcobaleno.
Sotto un cielo così appariscente, come mi si mostrava, procedevano ventiquattro seniori, con dei gigli incoronati, che tra loro in coppia procedevano,
Cantando “Sei benedetta tra le figlie di Adamo, e siano benedette tutte le tue bellezze”.
Dietro ai seniori, mi sembrò anche di scorger quattro animali, da sei ali con le piume ad occhio di pavone, ognun di loro ornato,
Tali da sembrar gli occhi di Argo, il mitico gigante di ben cento occhi munito.
Tra i quattro animali c’era un carro trionfale con due ruote, trainato al collo di un grifone
Che tendeva le ali così in alto, da sfuggire alla mia vista:
Era di color dorato, bianco e vermiglio.
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Mai Roma ebbe un carro trionfale così bello per festeggiar le gesta di Scipione l’Africano, oppur d’Augusto:
Anche il carro del Sole sfigurava innanzi a quella magnificenza
Che pur precipitò insieme a Fetonte.

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Mi chiamo Fetonte, e sono il figlio del dio Sole: abbiate pur fede
A quel ch’io dico, ahimè nessuno crede.
Ebbene Padre, oggi lasciami pur condurre il tuo carro
Altro io non ti chiedo e questo è ciò che a seconda delle circostanze ti urlo o ti sussurro.
Di tutto fece Apollo, pur di non farlo salire su quel carro
Perché quel carro dagli alati cavalli, era di troppo ardito per Fetonte il suo condurlo.
Facilmente si impazziva soltanto al gestirlo:
Ma Fetonte non intese ragioni, “questa volta davvero io corro” …
Fetonte, angosciato, vide un gran vuoto, sotto ai suoi piedi
Il carro impazzito o di troppo si ardiva prossimo, infuocando la terra
O di troppo su si elevava, nel cielo ormai divenuto rovente,
Improvviso e pericoloso, che tregua a quel carro richiedi.
Ma il carro la tregua non ti concesse, ed a maggior ragione
La catastrofe s’era già disegnata, ormai, però
Zeus, che degli uomini venne preso a compassione
Preciso scagliò una folgore proprio addosso a Fetonte
Che il ragazzo appena colpito restò impotente,
E a peso morto all’istante,  cadde nel fiume ch’era da basso
Di nome Eridano, che oggi vien chiamato Po
A quel pro avendo, ahimè, subìto un collasso.
La valle del Po con le terre di Alfonsine, era l’ultimo tratto
Della via dell’ambra, sacra al re Sole
Resina fossile assai preziosa usata al pari dell’argento e dell’oro
Meraviglia per gli occhi
Percorso che correva dal Baltico al Mediterraneo
Essendo il percorso a quel tempo più idoneo.
Tanto piansero la morte di Fetonte, le sue cinque sorelle
Le Eliadi, che Zeus mosso a pietà dal loro dolore
In pioppi dell’Oltrepò le tramuterà
Ed il loro piangere, in gocce di ambra si trasformerà.
Oggi quei pioppi della Valle del Po, sono memoria di quel grande amore
E ricordo futuro di quel viaggio folle …

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Dalla parte destra del carro, c’erano tre donne dalla bellezza assoluta,
Vestite l’una di rosso sgargiante, l’altra di verde smeraldo e la terza di bianco, di un candore che pareva neve appena caduta,
Che danzavano dolcemente guidando in alternanza,
Una gradevole lenta o veloce danza.
Dalla parte mancina del carro, quattro donne dalla veste rossa, danzavano a festa
Seguendo il ritmo di quella tra loro aveva tre occhi in testa.
Dietro al gruppo di queste belle donne che avanzavano mirabilmente,
Due anziani procedevano, pur vestiti tra loro differentemente:
L’uno appariva un parente di Ippocrate, che era a beneficio degli esseri viventi,
Mentre l’altro mostrava opposta inclinazione, armato di spada brillante ed aguzza, da far battere i denti.
Dietro ancora quattro uomini di umile aspetto
Ed ancor più indietro, ad occhi chiusi, avanzava un vecchietto.
Pur se di bianco vestiti, questi ultimi sette personaggi,
Non recavano in testa corone di gigli, bensì di rose ed altri fiori rossi dalle altre fanciulle appena colti nei paraggi.
E quando poi il carro a me si avvicinò,
Un tuono all’improvviso tutto il cielo squarciò:
Quasi un segnale d’arresto divino lanciasse,
Che il carro procedere oltre più per divina volontà non potesse …

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Mio affezionato lettore, ora ti debbo qualche doverosa spiegazione sul contenuto
Della precedente narrazione con la quale ti ho intrattenuto,
Perché è ricca di simbologia che finora ti ho tenuta celata,
Ma che ora ti voglio ben spiegare, per rendertela evidente e manifesta.
I sette candelabri, seguiti dai ventiquattro vecchi, ognun di loro con il bianco

giglio coronato,
Il carro trionfante dai quattro animali circondato,
E da quel magnifico grifone in quel teatro celeste trainato,
Erano simboli religiosi con un loro mistico significato:
Al pari delle tre donne alla sua destra,
E delle quattro donne alla sua sinistra;
Stessa cosa per i due anziani ulteriori, seguiti dai quattro uomini dall’umile aspetto,
E per l’ultimo quel vecchietto.

 

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Nulla si può dir, avviene per caso; niente di quel che ti ho descritto ha un che di vano.
Quella processione, raffigurava il cammino della Chiesa nella storia del genere umano.
La venuta di Cristo qui viene rappresentata da un grifone che traina quel carro pur preceduto da sette candelabri che lì in cielo, sulla sommità
Rappresentano i sette doni dello Spirito Santo all’umanità:
Cioè la sapienza, l’intelletto, il consiglio, la fortezza, e la scienza in grande quantità,
Il timor di Dio e non ultima la pietà.
Le due ruote del carro stavano a simboleggiare il continuo insegnamento
Che dobbiamo trarre dall’Antico e dal Nuovo Testamento.
I ventiquattro libri dell’Antico Testamento, sono rappresentati dai ventiquattro vecchi.
Che anticipavano il carro, e se ben osservi in ogni cosa la tua storia qui ben rispecchi !
Le tre donne sulla destra rappresentavano le tre virtù teologali: la Carità con il suo rosso vivo; la Fede di colore bianco; e col suo colore verde la Speranza.
Le altre quattro dalla parte opposta, rappresentavano le quattro virtù cardinali, cioè la Prudenza, la Giustizia, la Fortezza e la Temperanza:
Con i tre occhi sulla fronte era la Prudenza, capace ad osservare
Contemporaneamente il passato, il presente ed il futuro: e questi tre tempi diversi per poterli tra loro insieme ricordare.
I quattro animali rappresentavano i Quattro Evangelisti: l’angelo Matteo, il leone cioè Marco, il vitello cioè Luca, e l’aquila cioè Giovanni.
In questa magnifica rappresentazione, ogni cosa come vedi vestiva i propri giusti panni …
La grande scena del Paradiso Terrestre è pur sempre dominata da quel carro, cioè dalla nascita della Chiesa, che tiene ben distinto il prima dal dopo, in questa sua elaborata rappresentazione.
Lì si narrava degli Atti degli Apostoli e delle Lettere di San Paolo: gli uni come un vecchio, vestito da medico; e le altre come un vecchio che afferrava una spada, attribuita a San Paolo per antica tradizione.
I quattro personaggi umili simboleggiavano le Lettere di Pietro, di Giovanni, di Giacomo e di Giuda, ed il vecchio che manteneva gli occhi chiusi è lì a ricordarci l’ineluttabilità dell’Apocalisse.
Ed infine gli ultimi sette personaggi di bianco vestiti con corone di rose ed altri fiori rossi a cingere la loro testa, che stavano lì a simboleggiare il calore della carità che promana a seguito della discesa di Cristo che pur in terra visse.

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Quel carro e quei personaggi allo scatenarsi di quel tuono, lì nell’Eden, dinanzi a me si erano fermati in verità:
Certamente in attesa di un evento molto particolare che presto si verificherà …