Il libro del mese di marzo 2023: “Il caso Alaska Sanders”, di Joël Dicker. Un romanzo che rimarca come l’attività investigativa sia irrinunciabile, sempre e comunque.

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Di Francesca Andruzzi

Il romanzo di Joël Dicker, talentuoso scrittore svizzero, classe 1985, narra di un cold case, locuzione inglese che non ha necessità di traduzione, tanto è divenuta popolare; ma, per gli amanti della lingua italiana, la mente corre ai casi penali definiti o meno da molto tempo.  I nostri affezionati lettori già sono al corrente che questa rubrica non vuole essere una recensione, né svela le trame, soprattutto quando si trova in presenza di thriller appassionanti come questo.  Tuttavia, un rapido accenno è sempre necessario, al fine di inquadrare il messaggio, lo spunto di riflessione che ogni narrazione, sia pur di fantasia, contiene. Nel 2010, uno scrittore di successo, Marcus Goldman, si trova ad indagare su un delitto avvenuto nel 1999. Vittima, una giovane donna, Alaska Sanders, dal passato misterioso. Il caso venne risolto rapidamente dalla polizia, anche se con modalità tragiche. Il reo confesso e uno dei poliziotti si suicidarono. Un altro poliziotto restò gravemente ferito in un incidente d’auto. In prigione finì solo un amico del principale indiziato, indicato come complice da quest’ultimo prima di togliersi la vita e che, a distanza di un decennio, grida ancora la propria innocenza. Nonostante lo scenario oscuro relativo all’indagine, le prove scientifiche e le dichiarazioni, anche di colui che venne ritenuto colpevole, sembravano inconfutabili. Le tracce di DNA e l’accusa di complicità inchiodavano due giovani uomini amici della vittima. Una intensa e capillare attività investigativa – che la prova scientifica e le confessioni dovrebbero sempre integrare e che non venne adeguatamente svolta all’epoca dei fatti – porterà il noto scrittore e un amico, agente di polizia, ad arrivare alla verità. Una verità nella quale non ci sono tracce di DNA del vero colpevole che, peraltro, mai era stato accusato da alcuno. Non aggiungiamo altro che già non si evinca dalla lettura delle prime pagine di questa opera eccellente. Lo spunto di riflessione e la parola chiave, per avere l’occasione di riflettere sulla realtà, sono racchiuse proprio in quelle indagini investigative. La tecnologia e la scienza hanno compiuto passi da gigante. Questo è indiscutibile. Ma, come già anticipato prima, esse dovrebbero integrare l’attività investigativa e non il contrario. Purtroppo, come spesso accade, addirittura sembrano escluderla. Analisi dei fatti, capacità di collegamento, lettura del linguaggio del corpo (si mente con le parole, non con il corpo) e anche, perché no, un pizzico di fortuna, ma soprattutto la bravura formata dall’esperienza, contribuiscono alla soluzione di casi che solo apparentemente indicano un colpevole, o più di un colpevole, sulla base della sola prova scientifica o delle sole confessioni. Molti casi giudiziari, divenuti mediatici, confermano quanto appena detto. Con il risultato che, nonostante sentenze di condanna definitive, i colpevoli continuano a gridare la propria innocenza. Potremmo paragonare la prova scientifica, in assenza di riscontri investigativi, a quelle (false) dichiarazioni dei pentiti che accusarono (uno tra molti) Enzo Tortora. In fondo, anche il DNA può calunniare. Emblematico l’episodio legato alla figura di San Filippo Neri che, alla richiesta di una parrocchiana di determinare per la stessa la penitenza per un peccato di calunnia, ordinò alla donna di spennare una gallina e di disperdere le penne al vento. Successivamente, per completare la penitenza, ella avrebbe dovuto raccogliere tutte le penne. La donna protestò: non era davvero possibile procedere a quel recupero. E il Santo le diede ragione, così facendole capire che, per quel grave peccato, vi era possibilità di perdono, ma non di riparazione degli effetti dallo stesso prodotti. Se un corpo, vittima di omicidio, presenta tracce del DNA di un soggetto terzo, non si può affermare, sic et simpliciter, che quel soggetto sia il colpevole. Sarebbe come fornire credibilità assoluta alle dichiarazioni dei pentiti, come avvenne nel caso del compianto Enzo Tortora. Tutti noi possiamo lasciare tracce di DNA sugli altri, anche con una semplice stretta di mano. Non vogliamo con questo dire che la prova scientifica sia inutile, così come non affermiamo davvero che in molti casi le dichiarazioni dei pentiti o le confessioni non siano state utili. Vogliamo solo ribadire che la necessità dell’attività investigativa è irrinunciabile, sempre e comunque. Ci viene in mente, in tema di DNA e prova scientifica, il caso di Yara Gambirasio, la sfortunata adolescente di Brembate. Il colpevole sta scontando la sua pena e si trova in prigione dal 2014. Da allora, non fa altro che proclamare la propria innocenza. I suoi avvocati vogliono chiedere la revisione del processo. Si parlò molto (a dire il vero, solo) delle tracce di DNA trovate sul corpo della giovane; tracce che, a quanto è dato sapere, hanno determinato la condanna di Massimo Bossetti. Fu condotta, all’epoca, una attività investigativa che possa definirsi tale? Ci viene in mente, in tema di false dichiarazioni, il caso di Sara Scazzi, altra sfortunata adolescente di Avetrana. Lo zio della vittima, Michele Misseri, prima si dichiarò colpevole, poi cambiò versione e accusò la figlia, Sabrina Misseri (forse “colpevole” di essersi troppo esposta mediaticamente). Sabrina Misseri oggi sconta l’ergastolo insieme alla madre, nonostante il padre sia tornato nuovamente ad accusarsi del delitto. Anche loro continuano a dichiararsi innocenti .Fu condotta, all’epoca, una attività investigativa che possa definirsi tale? Considerato il tempo trascorso, ognuno dei due casi appena citati può considerarsi un cold case. Non resta che sperare nella buona volontà di qualcuno che, come Marcus Goldman, giunga a dissipare i molteplici dubbi che ancora nutrono anche coloro i quali ben conoscono le carte processuali. Perché le sentenze si rispettano nella loro esecuzione, tant’è che coloro che sono stati ritenuti colpevoli, come detto, sono in prigione. Ma non è davvero preclusa la possibilità di farsi domande, anche a distanza di molti anni. Soprattutto quando i colpevoli continuano a gridare la propria innocenza e quando le attività investigative forse non hanno avuto un ruolo preponderante.  E Joël Dicker sembra affermare che per la verità mai è troppo tardi.