Quattordicesimo appuntamento con la divina Commedia “rivisitata” in narrazione poetica da Piero Strocchi

132 (canto n. 28) (Scismatici)
Luogo – (Ottavo Cerchio; Nona Bolgia, Malebolge);
Custode – (Gerione);
Categorie – (I Seminatori di discordia e gli Scismatici);
Pena – (I Seminatori di discordia e gli Scismatici sono feriti e divisi dai colpi di spada di un diavolo invisibile);

Contrappasso – (I Seminatori di discordia e gli Scismatici in vita crearono divisioni tra gli uomini: ora sono feriti e divisi dai colpi di spada di un diavolo invisibile);
Personaggi – (Maometto, Frà Dolcino, Pier da Medicina, Caio Curione, Mosca dei Lamberti e Bertran de Born).
Nella Nona Bolgia dove giungemmo, i peccatori erano orrendamente mutilati.
Le varie scene e le anime con cui parleremo ci faranno vedere e ci narreranno scene raccapriccianti,
Tanto che facevo fatica a credere a ciò che ai miei occhi si poneva davanti.
Un’anima dannata mi si avvicinò, che solo il guardarla mi recava pena,
Per via di un profondo taglio dal mento fino al fondo schiena:
Le budella, il cuore, le viscere e l’intestino, dallo stomaco restavano pendolanti, e lì ormai erano posizionati.
Per giunta quel dannato, forse sé stesso odiando,
Con le mani si strappava il petto, quindi sempre più intensamente sanguinando.
Si trattava di Maometto,
Che secondo alcuni era stato un Vescovo della chiesa primordiale, all’epoca ritenuto scismatico, avendo scelto una diversa via.
In realtà le cose non andarono proprio così, avendo invece lui creato una nuova religione, alle altre alternativa.
Infatti, Maometto dell’Islamismo fu l’ideatore: religione che tuttora sopravvive, alcuni pur trovandolo un discutibile concetto.

 

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Di fronte a Maometto c’era suo cugino e genero: Ibn Alí Talib – che per comodità chiameremo Alì – uno sciita risentito,
Che realizzò il primo scisma mussulmano essendo stato uno che da sempre aveva dubitato.
Il suo volto era stato dal diavolo squarciato, dal mento sino alla fronte:
Proprio in ragione del suo agire, e quindi ad esso conseguente.
Maometto ben precisò che lì erano residenti anche i seminatori di discordia e color che furono causa di dilanianti divisioni.
In questa Nona Bolgia, c’era un diavolo nascosto, che ad una ad una perseguitava le anime dannate, ma che nessun vedeva: che con una spada lacerava a suo piacimento i loro corpi causando loro orribili mutilazioni.
Tutte le anime dannate nel percorrere la Bolgia incontrarono quel demone invisibile che prima li attendeva e poi li squartava;
I peccatori che sul loro percorso, avevano già incontrato il demonio, che li massacrava, con la spada che li smembrava,
Eran costretti poi a riprendere il cammino, e quando le ferite apparivano rientrate ancor lo stesso invisibile demonio nuovamente li sventrava.
A questo tormento erano qui destinate quelle anime dannate:
Mai avrebbero avuto pace: perché sarebbero state eternamente tormentate.
Maometto nulla sapendo pensò che anch’io fossi un’anima dannata:
Ma Virgilio gli precisò che io ero un uomo vivo, e che ero lì soltanto di passaggio, dando così alla faccenda la giusta sistemata.
Udendo la risposta di Virgilio, più di cento anime dannate rimasero sbigottite dalla particolarità di quest’evento,
Obliando in quel difficile contesto la loro sofferenza, almen per un momento.

 

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Riprese la parola Maometto chiedendomi una cortesia:
“Quando rientrerai in terra, narra a Frà Dolcino di stare molto attento, perché Bonifacio VIII° con lui sarà impietoso.
In passato avendo il frate ed il suo Movimento apostolare redarguito con dure parole i discutibili comportamenti della Chiesa,
Contro i quali si era rivoltato, essendo stato lui in tal senso rigoroso,
Insieme ai suoi discepoli, senza lasciare il passo a nessuna ipocrisia”.
Detto questo, Maometto se ne andò,
E in alto le sue gambe sollevò.

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Sopraggiunse immediata
Un’altra anima dannata:
La sua gola era forata,
E da essa sortiva copioso uno schizzante sangue rosso vermiglio fin dal suo gozzo,
Il suo naso era tagliato fin sotto le ciglia,
Aveva un orecchio solo, essendo l’altro mozzo,
Che la sua vista mi destò una grande meraviglia.
“Son Pier da Medicina, e caro Dante, ti conobbi in vita.
Se ti sarà possibile, fai sapere a due rispettabili signori di Fano, che ti nominerò, entrambi amici miei, che a Cattolica li attenderà una morte feroce.

Molto stupore questo fatto desterà, e poi in mare saranno gettati dentro un sacco legati ad una pietra per esser mandati a fondo.
I due onorevoli cittadini di cui io sto parlando, sono messer Guido del Cassero e Angiolello da Carignano traditi da Malatestino dall’Occhio, disonorevole signore di quella città,
Che li farà fisicamente eliminare,
Senza alcuna pietà,
Nel modo appena detto, che neanche i pirati, oppure i predoni greci, si sarebbero mai permessi di fare”.

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Di fronte a Pier da Medicina, che non si era risparmiato la favella,
Privo della lingua perché mozzata, in quanto seminatore di discordia, mi apparve Caio Curione, tribuno romano,
Dotato di grande abilità oratoria terrena.
Politico ondeggiante per denaro, che intorno al 50 a.C. sostenne Giulio Cesare, dopo una militanza repubblicana.
La sua frase qui citata, senza che da lui potesse esser declamata è: “Chi fosse ben preparato
Subirebbe un danno se avesse indugiato”.
Mal consigliò Cesare di varcare il Rubicone e di attaccare Pompeo: a quel punto diventarono tra loro rivali,
E in tal modo si scatenò una guerra civile tra i due ex sodali.
Al che si allontanò sia da me, che dal poeta,
Dando spazio ad un’anima dannata, che a noi si avvicinò discreta.
Priva delle mani, col sangue che gli schizzava sulla faccia: era Mosca dei Lamberti,
Un Ghibellino che oggi ancora viene ricordato per un suo famoso detto: “Cosa fatta, capo a”, intendendo dire che ciò che è stato fatto, con grande difficoltà potrà esser poi cancellato.
Mosca era stato condannato,
Perché convinse all’uccisione di un nemico i componenti della sua famiglia a cui ciò aveva comandato.
La cosa, gravi conseguenze gli aveva arrecato,
Sia a Firenze che all’intero suo casato.
Per questo motivo lo dovetti redarguire, in quanto il suo consiglio ed il suo volere su Firenze e sulla sua famiglia molto negativamente influì.

 

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Ma ancora non era finita.
Mi apparve vicino un uomo che per i capelli, con la mano destra, teneva la propria testa mozzata,
E nella mano mancina recava una lanterna, sì da rendere la sua testa tagliata ben illuminata.
“Sono Bertran de Born, signore del castello di Altaforte, nella Dordogna in Francia, monaco, poeta d’armi, e trovatore provenzale.
Son ridotto in questa condizione, cioè con la mia testa separata dal mio corpo, come Giuditta, la vedova ebrea, quando la testa ad Oloferne, il generale di Nabuccodonosor tagliò,
Ed al suo popolo, orgogliosa la mostrò.
A causa dei miei malvagi suggerimenti, causai la dura separazione del Giovane Enrico  III° d’Inghilterra dal padre, il Re Enrico II°, e qui ora io pago questo mio torto”.
Qui si conclude il Canto narrato,
Nel quale con le lacrime agli occhi, ero rimasto davvero  impressionato.

 

138 (canto n. 29) (Falsari)
Luoghi – (Ottavo Cerchio; Nona e Decima Bolgia, Malebolge);
Custodi – (Gerione);
Categorie – (I Seminatori di discordia nelle Nona Bolgia; Falsari di metalli con alchimia, Falsari di persone, Falsari di monete, Falsari di parole: tutti nella Decima Bolgia);
Pene – (I Seminatori di discordia sono feriti e divisi dai colpi di spada di un diavolo invisibile; I Falsari sono sfigurati da terribili malattie, come la scabbia e la lebbra);

Contrappasso – (I Seminatori di discordia in vita crearono divisioni tra gli uomini: ora sono feriti e divisi dai colpi di spada di un diavolo invisibile; I Falsari in vita hanno falsato la realtà: ora sono sfigurati da terribili malattie, come la scabbia e la lebbra);
Personaggi – (Geri del Bello, Graziolo de’ Bambaglioli, detto Griffolino d’Arezzo, Capocchio da Siena).
Ebbri erano i miei occhi nell’osservar gli orribili supplizi di quelle anime dannate.
Virgilio mi riprese perché – dovendo andare avanti – il mio sguardo non si poteva soffermare tra quelle anime mutilate.
Gli risposi: “Maestro, questa volta tu non conosci il motivo del mio agire: è dovuto alla vista di un mio lontano parente,
Che un poco sbraita, anche in modo irriverente”.
Infatti mentre ancora ero impegnato con Bertran de Born, l’anima di un mio cugino,
Mi si rivolse con un gesto minaccioso e sdegnato,
In quanto il suo violento omicidio non era ancora stato ancora vendicato.
Geri del Belloquesto era il suo nome, in verità un cugino di mio padre Alighiero di Bellincione, usuraio: in vita seminatore di discordia, processato per risse e per percosse: da lì s’allontanò, sdegnato appunto perché nessuno aveva vendicato la sua morte violenta, per questo evitando anche il solo starmi vicino.
“Non ti curar di lui – rispose Virgilio – e procediamo nella nostra missione”.
Giungemmo alla Decima Bolgia, l’ultima delle Malebolge, dove fui stupito dai lamenti,
E dalle grida di dolore sì acute da penetrar sin dentro al cervello, tanto che mi tappai le orecchie e rimasi stupito dal gran rumore delle anime lì presenti.

 

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Un puzzo esalava lì dal fondo, dove ogni singola anima dannata – tutti in vita dei falsari irriducibili – nitidamente era vista.
Paragonai quella visione
A quanto avvenne a causa della pestilenza – provocata da Era – nell’isola di Egina per punire gli amori di Zeus con la ninfa che si chiamava anch’essa Egina: e adesso ne spiego il perché.
La peste distrusse l’isola intera, lasciando in vita solo il figlio della ninfa Egina, Eaco, un figlio di Zeus,che di quell’isola era il re.
Eaco ottenne da Zeus di ripopolare l’isola, trasformando in uomini, per divina risposta,
Tutte le formiche che si trovavano ai piedi della quercia, sotto la quale il re stava seduto, sì da ripopolare l’isola:
Quello delle formiche tramutate in uomini,
Diverrà un popolo che successivamente verrà chiamato “il popolo dei Mirmìdoni”.

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Le anime dannate dei falsari, giù nel fondo,
Stavamo l’uno sul ventre dell’altro, quasi tutte soffocando.
Chi si addossava sull’altrui spalla,
Chi invece si trascinava carponi lungo il percorso, quasi rotolando, come fosse una palla.
Non si potevano alzare più quelle anime dannate: da capo a piedi erano visibili le croste infettate che tutte recavano.

 

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E ancora si andavano graffiando con ferocia sino a crearsi nuove piaghe.
A questo punto Virgilio, rivolgendosi verso il fondo, chiese se qualcuno fosse latino ovvero italiano.
In due risposero discostando le loro schiene e mostrando le loro dolorose piaghe.

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La prima anima dannata come tutti gli altri lebbrosi e tremante al nostro cospetto assunse la parola: “Io sono Graziolo de’ Bambaglioli, detto Griffolino d’Arezzo, sono un alchimista e fui messo al rogo e arso vivo da Albero da Siena,
Perché a suo dire ero stato nei suoi confronti un eretico avendogli promesso di insegnargli il segreto per volare.
Ciò però non essendo stato possibile, e non potendosi parlare di un nuovo Icaro, dovetti poi scontare la conseguente dura pena.
Proprio per questo dichiarò che mi considerava un eretico – non in ragione delle mie alchimie – ma per quanto gli andavo incautamente a propinare”.
E con un’enfasi aggiuntiva
Si abbandonò insieme all’altro ad una dichiarazione conclusiva:
“Non esiste al mondo gente più fatua dei Senesi,
Salvo alcuni ancor più degli stessi Francesi”.
Così terminò il suo discorso Griffolino.

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Il secondo dannato, alchimista falsario, anche lui lebbroso e tremante assunse la parola,
Schiarendo con fatica la sua gola:
“Sono Capocchio da Siena e sono d’accordo su quanto sui senesi da Griffolino è stato appena detto:
Però tra i senesi devono essere salvati, sebbene siano dei gran dissipatori, Stricca de’ Salimbeni, e suo fratello Niccolò.
Stricca si diede a spese pazze ed insieme a suo fratello Niccolò – che fu il primo ad utilizzare in cucina il chiodo di garofano – frequentava una brigata di dodici spendaccioni; in sostanza la questione così si articolò:
Facevano parte di quella brigata di dissipatori tra gli altri anche Caccianemico di Trovato degli Scialenghi e Bartolomeo dei Folcacchieri detto l’Abbagliato: ma veniamo al fatto:
Tutti costoro, ricchi di famiglia, si dettero a folli spese, vendendo i loro patrimoni, e in due anni dilapidarono la consistente somma di duecento sedicimila fiorini.
Io invece son qui qual semplice alchimista, capace a falsificar monete: proprio per questo fui arso vivo a Siena il giorno di ferragosto del 1293 nei pubblici giardini”.
Ma ancor non era terminato il nostro viaggio nelle Malebolge infernali.

 

144 (canto n. 30) (Falsari di parole)
Luogo – (Ottavo Cerchio; Decima Bolgia, Malebolge);
Custodi – (Gerione);
Categorie – (I Falsari di persone, i Falsari di parole e spergiuri, i Falsari di monete);
Pena – (I Falsari sono sfigurati da terribili malattie, come la scabbia e la lebbra);

Contrappasso – (I Falsari in vita hanno falsato la realtà: ora sono sfigurati da terribili malattie, come la scabbia e la lebbra);
Personaggi – (Gianni Schicchi de’ Cavalvanti, Mirra, Mastro Adamo, Sinone, Moglie di Putifarre).
Nella Decima Bolgia dell’Ottavo Cerchio trovavano alloggio le anime dannate dei falsari di persona, di parola e di metalli: qui ora ero insieme all’anima del gran poeta.
Falsario di persona può apparire locuzione poco definita,
E per meglio farvi intendere chi fossero i falsari di persona, qui mi soffermo con qualche narrazione concreta.
La prima è questa: Era, che controllava ogni “amorosa intemperanza” di Zeus, il re dell’Olimpo, era gelosa di Sèmele la figlia di Cadmo il re di Tebe, all’epoca l’ultima tra le sue amanti.
Nelle sembianze di Beroe, la vecchia nutrice della ragazza, Era le apparve all’improvviso davanti,
E nell’incontrarla le insinuò l’infido dubbio sulla divinità di Zeus, il suo amato:
Così inducendola con fare assai determinato,
A pretendere una divina prova a dimostrazione del suo splendore e della sua maestà.
Sèmele ottenne da Zeus il giuramento di aderire a quella sua richiesta, ma si sa,
Zeus cercò invano di dissuaderla, e quando le apparve magnificente com’era qual signore del tuono e del fulmine,
Sèmele non sopportando quel fragore, ne rimase in un attimo incenerita.
Nonostante questo grande risultato, ma ciò ancor non bastandole, Era ingenerò la follia in Atamante, il cognato di Sèmele: però questo apparve a tutti troppo, che diamine !
Atamante era il marito di Ino, che aveva educato Bacco, sì proprio il figlio di Sèmele.
E subito vi vengo a spiegare il perché.
Tale follia comportò che Atamante, confuso dinanzi a sua moglie e ai suoi due figli,
Nel vederli
Li scambiò per una leonessa e due leoncini, che contro di lui gli appariva ruggissero.
In un istante afferrò suo figlio Learco e subito lo uccise: per la paura sua moglie con in braccio l’altro figlio in mare si buttò ed entrambi annegarono.
La vendetta di Era ormai si poteva dir completa:
La moglie di Zeus orgogliosa, Sèmele per sempre aveva rovinata.
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Vi porto un altro esempio ancora rifacendomi ad Ovidio, che ora vien narrato.
Ormai distrutta Troia e ucciso Priamo divenne regina di Troia sua moglie Ecuba, che però dai greci venne arrestata e fatta schiava:
Poi venne condotta su una nave, ma i greci non ebbero riguardo per il suo passato.
Ecuba già impazzita per la fine di Troia, arrivò ad una follia che l’accecava,
Quando seppe della morte di sua figlia Polissena, e di Polidoro l’altro figlio forse da lei ancor più amato.
Durante la guerra di Troia, Priamo avevo affidato
Suo figlio Polidoro al re Polimnestore che regnava su una parte della Tracia; nel contempo anche affidandogli parte del troiano tesoro.
Quando giunse la notizia della caduta di Troia, Polimnestore per impossessarsi di quel tesoro senza alcun scrupolo e senza perder tempo, fece uccidere Polidoro.
Quanto a Polissena invece la ragazza ebbe la sventura di invaghirsi di Achille, l’Acheo, il più temerario guerriero.
Quando questi tese un’imboscata a Troilo uno dei fratelli di Polissena, che naturalmente combatteva per i troiani, sull’opposto sentiero,
Avvenne che proprio in quel momento, gli sguardi di Achille e di Polissena si incrociarono:
Bastò quell’attimo ed entrambi tra loro s’innamorarono.
Il Pelíde avrebbe fatto ogni cosa per l’amata,
Sarebbe giunto fino al tradimento dell’intera sua cordata.
Morto Achille, però lo stesso Pelíde apparendo in sogno agli Achei pretese il sacrificio della sua desiderata,
Sì da consolare con quel ricongiungimento la sua anima disperata.
Fu il figlio di Achille, Neottolemo che si adoperò per uccidere Polissena.
Ma ogni evento ahimè ha un proprio doloroso retroscena.
Lo strazio di Ecuba a seguito di questi due dolorosi eventi la fece diventare folle: sino ad emettere degli ululati disperati quasi fosse un cane: il suo in realtà era un latrato,
Estrema ferita di un animo dilaniato.
Questo a dimostrarvi come gli estremi dolori possano mutare nel profondo la natura umana, secondo il divenire imprevedibile degli eventi.
Ebbene, vi ho narrato questi due fatti di dolore e di pazzia, per darvi esempio di quanto fossero disperate le anime dannate dei falsari di parola, proprio lì presenti.

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Una delle anime dannate, sempre tra i falsari di parola, improvvisamente assalì Capocchio, azzannandolo sul collo e trascinandolo con il ventre a terra.
“È Gianni Schicchi – disse Griffolino – che fingendosi il defunto Buoso Donati, si assegnò le sue giumente più belle con un falso testamento”.
In quel mentre, tra noi giunse trafelata, l’anima dannata di Mirra, che in vita desiderò suo padre, contro ogni morale, e che per questo si finse un’altra donna, per rubargli quell’incestuoso amore nella notte del tradimento.
Il padre accortosi appena dopo del tradimento,
Cercò di uccidere sua figlia lì sul momento.
Per tal motivo Mirra, desiderosa di salvarsi dalle ire del padre, chiese agli dèi ausilio: che fosse punita, ma che fosse salvata dal divino responso.
Così divenne un albero, l’albero di mirra, in esso essendo stata trasformata.


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Camminando ancora in questa grande Bolgia mi soffermai su un dannato dal ventre gonfio e dal volto e dal collo simili a un liuto, o simile alla pancia di una rana,
Dalla labbra aperte a ricercar con insistenza l’acqua: questo dannato, degli altri è ancor più sofferente, trattasi di Mastro Adamo, mi vien da dire poverello,
Gran falsario di moneta – di fiorini fiorentini – nel castello di Romena nelle valli del Casentino, in Toscana.
A ciò indotto dai conti Guidi che gli imponevano di sostituir tre once d’oro sulle ventiquattro totali con un vil metallo.
Il suo corpo deformato, di quella sua carriera scellerata era l’ultimo tassello.
Catturato dalla Signoria di Firenze venne arso vivo per il suo reato nel 1281, proprio in prossimità di quel castello.

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Erano lì vicini a noi, anche i falsari di parole e tra di essi ne scorsi due: la moglie di Putifarre, ed il greco Sinone.
La moglie di Putifarre – un ufficiale del faraone egizio – dal nome ignoto, si trovava lì all’Inferno perché usò con dolo le parole, in una certa particolare situazione.
Il marito, Putifarre, aveva uno schiavo di nome Giuseppe di cui s’invaghì sua moglie, una donna in verità poco avveduta.
Al diniego del ragazzo, che a dire il vero era molto coscienzioso e timoroso, la moglie denunciò al marito che Giuseppe l’aveva con un sotterfugio ricercata;
Così mandando in carcere quel giovane innocente.

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Il greco Sinone fu anch’egli falsario di parola, quando convinse i Troiani con facilità,
A far entrare dentro le mura della loro città il famoso cavallo di Troia, giurando il falso a Priamo il re di quella città,
A cui ancor più falsamente narrò di essere ostile ad Ulisse,
Il quale avrebbe richiesto all’indovino Calcante di sacrificare proprio Sinone: almen così lui disse,
Come augurio per un tranquillo rientro in patria.
Il giovane Sinone ancora precisò di essersi sottratto a tale cerimonia sol perché s’era dato a gambe per la prateria.
Quando Priamo gli chiese, ad ulteriore chiarimento le motivazioni per cui i Greci battessero in ritirata,
Sinone,  con fraudolenta maestria gli rispose che Atena, protettrice dei Greci, più non li sosteneva perché Ulisse nel suo tempio proprio a Troia la sua immagine aveva profanata,
E per tal motivo i Greci si sarebbero trovati costretti entro breve ad una resa coi Troiani e ad una veloce ritirata.
Non contento di ciò Sinone aggiunse ancora: “Le dimensioni del cavallo, peraltro non sono tali da poter entrare dentro la città, ed ove ciò fosse anche avvenuto l’ira di Minerva si sarebbe poi sui Greci riversata.
Ove invece i Troiani avessero distrutto o danneggiato quel cavallo Minerva il tuo popolo, o Priamo, in eterno avrebbe perseguitato”.
Mai oratoria più infida venne pronunciata: il fine era stato con gran malizia perseguito.
Poi improvvisamente Sinone e Mastro Adamo, tra loro, accesero una zuffa,
Scambiandosi tra loro colpi ingenerosi, fisici e di parole: situazione che nella loro condizione appariva quanto meno buffa.
Una singolar tenzone
Di parola e con la fisica reazione,
Come l’ebbi anch’io ma solo a suon di rime,
Con Forese Donati verso la fine del mille e duecento, con delle note di bassa lega e davvero crudelissime.
Da entrambi scritte: lì dove Forese accusò mio padre d’usura,
E dove io gli ricordai come sua moglie – a causa del suo scarso amore verso di lei – soffrì della sua poca amorevole arsura.

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Un po’ troppo però lo riconosco, mi dilungai nell’osservare quel volgare alterco.
Per questo mi riprese Virgilio, con fare risoluto dicendomi: “Non devi soffermarti ad osservare tali ignobili comportamenti!”
Io con Virgilio subito mi scusai umilmente, ed assunsi un aspetto più rispettoso,
E senza profferir parola, il mio capo volsi, per quanto possibile, a ritroso.