Il Personaggio del mese di marzo 2020: la “Memoria delle donne”, storia di D.

Di Francesca Andruzzi

A marzo si festeggia la Donna. Ma c’è ben poco da festeggiare. Anzi nulla. Ciò che si sta compiendo davanti ai nostri occhi è una vera e propria mattanza. E non riguarda solo i ‘femminicidi’. Mogli, fidanzate, sorelle, amiche sfigurate con l’acido, mai cessate le discriminazioni sul posto di lavoro, ancora si utilizzano donne svestite per pubblicizzare un prodotto commerciale. E nel mondo, donne che vengono lapidate per un adulterio o presunto tale.  Abbiamo incontrato – in una intervista che vuole essere l’ennesimo tentativo di sensibilizzazione nei confronti di una società che si mobilita a fare incetta, nei supermercati, di prodotti di prima necessità a causa di un virus influenzale, ma che nulla fa o dice dinanzi ai veri e propri massacri, soprattutto in ambito familiare, che accadono, oramai, con cadenza giornaliera  –  una delle vittime, che chiameremo ‘D’, della violenza di un maschio, che chiameremo ‘M’, che non può certo essere definito Uomo. Per sapere da lei come è andata, cosa farebbe se potesse tornare indietro e, soprattutto, cosa stanno sbagliando non solo gli uomini, ma anche le donne. Perché si può sbagliare anche ad amare chi non ama, si può sbagliare anche a sopportare l’insopportabile.

                                                                                                  

D.: Intanto, iniziamo dal principio. Cosa è successo? 

R.: E’ successo che avevo una famiglia. O almeno così credevo. Ci siamo sposati molto giovani. Mi sembrava fosse amore. I miei genitori erano contrari. A loro M. non era mai piaciuto. Ma più mi dicevano che non era adatto a me, più io mi convincevo che fosse quello giusto. All’inizio tutto bene. O quasi. In effetti perdeva la pazienza per niente. Ma non mi aveva mai messo le mani addosso. Almeno finché non sono nati i figli. Già dopo il primo, M. aveva cominciato a essere più intollerante. Bastava una mia parola, qualsiasi parola che non gli andasse a genio o una tavola apparecchiata, ma non come voleva lui. E giù scenate, anche davanti al bambino, che era ancora piccolo. Poi, un giorno, ho fatto tardi al rientro dalla spesa. Mi sono fermata a parlare con un’amica. L’unico svago di una vita fatta di lavori domestici e un impiego. Mi ha aspettata sulla porta e mi ha picchiata.  

D.: E lei cosa ha fatto?

R.: E che dovevo fare? Ho cercato di calmare mio figlio che piangeva in un angolo e poi ho messo un poco di trucco sull’occhio nero. 

D.: Tutto qui? Ma almeno lui le ha chiesto scusa?

R.: Proprio scusa direi di no, anche se la notte stessa mi ha preso con un certo ardore, che solo oggi mi appare come altra violenza. Credevo che quel fare l’amore fosse il suo modo di chiedere scusa. Oggi capisco che mi sbagliavo.  

D.: E poi?

R.: E poi…quella notte stessa sono di nuovo rimasta incinta. Lui sembrava più calmo, anzi, per i primi tempi della gravidanza anche più gentile. Poi ho scoperto, all’ottavo mese di gravidanza, che usciva con un’altra. Aveva un’amante. L’ho affrontato e mi ha preso a calci sulla pancia. Sono stata portata in ospedale e mi hanno fatto un cesareo per salvare me e il bambino. Ho detto che ero caduta dalle scale.  

D.: Però, mi scusi, perché continuava a difenderlo?

R.: Perché avevo paura che potesse fare altro male non solo a me, ma anche ai miei figli.   

D.: E cercare un aiuto, dai suoi familiari, amici, colleghi di lavoro? Possibile non ci fosse nessuno disposto ad aiutarla?

R.: Questo non lo so, perché ai miei genitori non ho mai detto nulla. Erano contrari al mio matrimonio, gliel’ho detto prima, come avrei fatto a confidarmi con loro? Mi avevano pure detto che non mi avrebbero riaccolta in casa se mi fossi separata. Gli amici, mi chiede? Io avevo solo un paio di amiche e quella che credevo fosse la mia migliore amica…era lei l’amante di mio marito. Sul lavoro poi, a chi potevo dirlo? A dire il vero ho provato a chiedere aiuto al mio capo. E lui mi ha detto che poteva aiutarmi. Se fossi stata carina con lui…  

D.: Quindi ha continuato a restare sposata con M., da qual che capisco. Separarsi, non le era venuto in mente?

R.: E dove potevo andare? La casa che abitavamo era di proprietà dei genitori di M., ce l’avevano data in comodato, che significa un prestito, a quanto mi hanno detto. Rischiare di trovarmi fuori di casa, senza una casa? E con due figli? Non me la sono sentita.  

D.: Ma ci sono tante associazioni che si occupano di violenza di genere. Almeno poteva fare un colloquio…

R.: E come? Mi controllava, mi seguiva, veniva a prendermi al lavoro, dopo quella volta che feci tardi, mi accompagnava pure a fare la spesa. Vedeva uomini che mi corteggiavano dappertutto. Pure il portiere non mi salutava più. Una volta fece una scenata anche a lui, perché si era offerto di aiutarmi a portare su per le scale la carrozzina del mio secondo figlio.  

D.: Ha continuato a picchiarla?

R.: Sempre di più, sempre più forte e non solo con le mani. Un giorno prese il mattarello, quello con cui stendevo la pasta fatta in casa. E mi ha spaccato la testa. Mentre morivo ho pensato ai miei figli, che erano lì davanti e piangevano. Ma ho anche pensato …almeno è finita…

D.: Se potesse tornare indietro, che farebbe?

R.: Facile a dirsi…dovrei tornare indietro con un’altra testa, un’altra consapevolezza. Da parte mia cercherei di dare maggiore ascolto ai miei genitori, che però non avrebbero dovuto dirmi che la porta restava chiusa se avessi sposato M.. I figli non si rifiutano. Poi sceglierei meglio le amicizie, soprattutto quelle femminili. Con la mia amica del cuore mi ero un poco aperta e lei, invece di aiutare me, è diventata l’amante di mio marito. Sul lavoro, poi, cercherei maggiore rispetto. Troppe volte mi sono sentita un nulla, perché una semplice impiegata. E invece il mio lavoro era importante, tutti siamo importanti.

 

Chi soffre, chi vive una condizione di difficoltà, non ha la stessa forza di chi guarda dall’esterno. E’ facile dire ‘potevi andare via’, quando via significa nessun luogo. Proviamo tutti a essere più attenti, a tendere una mano alle donne e ai loro bambini che vivono una situazione di difficoltà. Perché lasciare che una mano colpisca, senza almeno tentare di fermarla, è una grave omissione che pesa sulle coscienze di ognuno.Gli uomini non sono tutti come M., per fortuna, ma sono ancora troppi quelli che vivono un rapporto come un diritto di proprietà. Insegniamo a nostri figli il rispetto, a darlo e a pretenderlo. Insegniamo ai futuri uomini e alle future donne che le persone non sono oggetti. E non dimentichiamo che occorre praticare ciò che si trasmette con l’insegnamento.